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1 Giug 205 - GLI ARMENI IN ITALIA: una secolare presenza
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http://www.italiarmenia.it/sito/index.php?option=com_content&id=46&Itemid=11&limitstart=9
Quando, a seguito della conquista romana per opera di Pompeo, Tiridate I fu incoronato da Nerone re d’Armenia in una solenne cerimonia svoltasi a Roma nel 66 d. C.,1 non potè non farsi accompagnare da un ampio seguito. In questo periodo quindi ci fu sicuramente la presenza nell’Urbe di considerevoli gruppi di armeni, principalmente mercanti, ma – come ipotizza Gaianè Casnati – anche maghi, se si dà seguito a quanto scritto in talune Satire di Giovenale.2
Tra l’altro si presume che in questi anni vengano importate nella penisola italica dall’Armenia piante come il ciliegio, il susino e l’albicocco. Quest’ultimo, particolarmente amato e celebrato dagli armeni, è infatti definito scientificamente “prunus armeniaca”, e curiosamente, a ribadirne le origini armene, i veneziani della Serenissima repubblica, chiamarono non a caso “armein” l’albicocca, in un’epoca in cui la comunità armena a Venezia era molto numerosa ed influente.
Tuttavia bisogna partire dall’Alto Medioevo perché la presenza armena in Occidente cominci a farsi considerevole. Troviamo tangibili tracce di presenze armene, sia in ambito confessionale che civile, in Francia, Irlanda, Islanda, Ungheria, Germania, Inghilterra. Nel contempo, molti occidentali si recano in Oriente, con motivazioni analoghe. Sempre più numerosi sono i pellegrini che da Occidente muovono verso Gerusalemme, spinti dall’impulso dato dalle Crociate, mentre commercianti occidentali – francesi e italiani in particolare – approdano in Oriente, attraverso il Mediterraneo, a partire dal X e XI sec. Se ne deduce quindi che durante tutto il primo Medioevo i contatti tra armeni ed occidentali dovettero essere frequenti e considerevoli. Di qui “la notevole mole di presenza di armeni in Occidente. Si trattò di gente di professioni e provenienza diverse, che avevano tuttavia in comune la tenacia e l’audacia della loro razza, un gusto innato per l’avventura, una bravura negli affari, i tratti di un destino sottoposto spesso alle più dure prove, colpa della posizione geografica del loro paese d’origine.”3
La fondazione del Regno di Cilicia (1199) e il protrarsi delle Crociate costituiscono due fattori decisivi per l’intensificarsi dei rapporti tra armeni e Occidente, favoriti anche dalle ottime relazioni diplomatiche instauratesi tra il re di Cilicia con Francia ed Inghilterra. Tra il XI e il XIV sec. si formano colonie armene in Transilvania, Ungheria, Ucraina, Moldavia, Crimea, Polonia; dal XV al XVI sec., oltre all’intensificazione di queste realtà, si insediano varie comunità armene in Spagna, Olanda, Francia e, non ultima, in Italia. Infatti, “tra tutte le nazioni occidentali l’Italia è senz’altro quella che vanta una più antica e continua presenza armena.”4
In Italia, nel Medioevo, si registra la presenza di armeni a Ravenna, Firenze, Roma, Siracusa, Benevento, Ancona. Ravenna assume un ruolo particolarmente significativo quando annovera due esarchi armeni, Narsete (Nerses) (541-568) e Isacco/Isaccio (Sahak) (624-644); in questo periodo la milizia della città era composta prevalentemente da armeni, tanto che il quartiere da loro abitato si chiamava proprio “Armenia”. Nella Chiesa di S.Vitale in onore dell’esarca Isacco è stato eretto un gruppo marmoreo con epigrafi attestanti le sue origini armene.
In ambito politico anche la Sicilia non fu meno importante da questo punto di vista: nell’XI sec. l’isola aveva un governatore bizantino originario di una nobile casata armena, i Mamikonian, venuti in Italia nell’ 832. In Sicilia viene anche ricordato un castello, detto Rocca degli Armeni, espugnato nell’861.5
Le ragioni che spingono nutrite comunità armene a raggiungere la nostra penisola sono sia di tipo economico-commerciale, che di tipo religioso. Se da un lato mercanti sempre più numerosi mettono a buon frutto le valide relazioni diplomatiche instauratesi tra i governi, dall’altro, troviamo gruppi di monaci che, spinti da obiettivi missionari o dalla necessità di fuga verso luoghi più sicuri, si trasferiscono in Italia, incoraggiati anche dai migliorati rapporti tra la Chiesa di Roma e la Chiesa Apostolica armena. L’esempio più rilevante è quello della fuga a Genova di un gruppo di monaci di Cilicia che, nel 1290, sotto l’incalzare delle minacce e violenze mamelucche, abbandonano la terra natale a bordo di una nave genovese. Navi delle repubbliche marinare erano infatti attraccate al porto di Mersin, presso Tarso, sin da quando i crociati avevano iniziato a transitare per la Cilicia: Federico Barbarossa aveva infatti valutato che questo regno cristiano si trovava in una posizione strategica ideale e poteva fungere da appoggio logistico per i suoi eserciti. I monaci transfughi daranno origine all’Ordine Armeno Basiliano, che da Genova si è diffuso in molte altre città italiane: Milano, Pavia, Siena, Firenze, Ancona, Parma, Napoli. I Basiliani mantengono per un certo periodo la lingua armena nella loro liturgia, fino a che questa non viene gradualmente italianizzata. Fondano anche istituzioni culturali e caritative: annesso al convento c’era spesso un ospizio e creano centri di traduzione e copiatura di manoscritti, secondo una radicata consuetudine monastica armena.
Anche Roma, grazie ai pellegrinaggi, ospita, sin dal XIII sec. una fiorente comunità armena, dotata, come attesta un’epigrafe del 1246, di monastero, chiesa ed ospizio, di cui però non esiste attualmente traccia. Uno dei segni armeni più datati conservati a Roma è un’iscrizione armena sul portale bronzeo di San Pietro, dedicata a San Gregorio l’Illuminatore. Successivamente verranno edificate le Chiese di San Biagio della Pagnotta e San Nicola da Tolentino. Quest’ultima appartiene al Pontificio Collegio Armeno 6 ed è regolarmente officiata in armeno.
Altro centro che registra nel XVI sec. una influente comunità armena è Livorno. Nel 1591 il Granduca di Toscana aveva emanato un decreto con cui invitava gli armeni a stabilirsi a Livorno con il compito di risollevarvi il commercio. All’inizio del ‘600 si registrano 120 negozi armeni in città, e nel 1643 vi viene creata la prima stamperia su iniziativa di un sacerdote armeno.
In Sicilia la presenza armena viene testimoniata dall’XI al XVIII sec. e nel 1753 S. Gregorio l’Illuminatore è proclamato patrono di Palermo.
A Milano sappiamo che nel 1307 fu edificata, per intervento dei Basiliani, una chiesa dedicata ai santi Cosma e Damiano, che però fu demolita all’inizio degli anni ’20. Oggi, la comunità milanese può invece far riferimento alla Chiesa Apostolica Armena dedicata ai Santi Quaranta Martiri, costruita però in anni molto recenti (è stata consacrata nel 1958) su progetto dell’architetto Surian, in uno stile armeno tardo medievale.
Le diverse colonie armene sparse per l’Italia edificarono molti luoghi di culto, secondo un radicato costume secondo cui gli armeni, una volta stabilitisi in un luogo, si preoccupavano “in primis” di edificarvi una chiesa e una scuola. Di parecchie chiese purtroppo oggi resta solo il nome, come S.Maria de Armenis a Matera e S.Andrea de Armenis a Taranto; altre invece sono tutt’oggi presenti, come la Chiesa di San Bartolomeo a Genova, che ha ospitato un nucleo di monaci armeni e dove è conservato un sudario di Cristo, esposto all’adorazione dei fedeli una volta all’anno. La tradizione vuole che questa sacra reliquia provenga da Edessa, dove si narra che, una volta esposta durante l’assedio della città, abbia avuto il potere di fermare il nemico. Quello che invece con acutezza fa notare Adriano Alpago Novello è la “vasta gamma di punti di contatto tra l’Armenia e l’Italia in campo architettonico.”7 Emergono, secondo gli esperti, diverse analogie tra il Rinascimento italiano e l’architettura armena, riscontrabili soprattutto nel rigoroso controllo degli spazi, nell’assoluta simmetria, nell’essenzialità del decoro, nell’uso di costruzioni centriche cupolate, nella ricerca della policromia negli esterni e nel frequente uso degli orologi solari.
Finora sono stati citati, un po’a volo d’uccello, tanti nuclei armeni presenti in Italia, in cui vivevano militari, funzionari statali, monaci, commercianti, artigiani – nuclei che hanno fatto in tanti momenti da ponte tra la loro madre patria e l’Occidente. Abbiamo volutamente tralasciato il centro che storicamente è divenuto il più importante, perché necessita di uno spazio speciale: Venezia.
Una storia a parte: Venezia
“I primi contatti degli armeni con Venezia si perdono nella remota epoca delle origini stesse della città,”8. Una delle prime testimonianze sicure ne è certamente la costruzione della primitiva cattedrale di Torcello su iniziativa dell’esarca armeno di Ravenna, Isacco, e documentata da una lapide commemorativa del 639. Abbiamo comunque notizie poco certe fino a che non si giunge al Regno di Cilicia. Nel XI sec. Venezia e il regno armeno si scambiano accordi che sanciscono privilegi reciproci in campo commerciale. Grazie a tali accordi, veneziani possono risiedere agevolmente in Armenia ed armeni trovano vantaggiosa ospitalità a Venezia. In una città che sta diventando sempre più cosmopolita, come è dimostrato dalla sua toponomastica, gli armeni, essendo cristiani, non hanno difficoltà ad inserirsi in qualsiasi zona, anche se il sestiere di S. Marco diventa una delle aree privilegiate. Qui, e precisamente in parrocchia S. Zulian, nel 1235 viene ufficialmente consegnata alla comunità la sua Casa Armena (Hay Dun), in Calle delle Lanterne, oggi Calle degli Armeni. Altre analoghe istituzioni erano state create in diverse città a densa comunità armena, come ad esempio Genova. La Hay Dun veneziana era nata grazie alla benevolenza del doge Sebastiano Ziani il quale, prima di divenire la massima autorità della Serenissima, aveva lungamente soggiornato in Cilicia, intrecciando positive ed amichevoli relazioni con i suoi abitanti. Ritornato quindi a Venezia, aveva voluto rafforzare questa amicizia, aiutando gli armeni che vi si erano trasferiti. La Casa Armena doveva infatti fungere da punto di riferimento e ospizio per i nuovi arrivati, oltre che essere un centro di incontro per tutta la comunità. Annessa a questo stabile, sorse in seguito la chiesetta di Santa Croce. Un primo edificio risale al 1434. Rinnovata ed ampliata a più riprese, grazie all’intervento di facoltosi mercanti armeni, assunse la struttura attuale nel 1689. Si tratta di una chiesa di piccole dimensioni, di cui non è visibile la facciata, essendo serrata tra l’arco del Sotoportego dei Armeni e un rio adiacente. Il campanile è individuabile, e la foggia è tipica delle chiese occidentali coeve. Santa Croce è l’unica, tra le tante chiese armene sorte in Italia nel Medioevo – più di una quarantina – dove ancor oggi si svolge la funzione religiosa in armeno, officiata dai Padri Armeni Mechitaristi di San Lazzaro. Ricordiamo comunque che precedentemente, a Castello, sorgevano già nella prima metà del Trecento la chiesa e il convento di S.Giovanni Battista dei Frati Armeni.
A S. Zulian risiedevano numerosi mercanti ed artigiani armeni. Il commercio spaziava dai tessuti, alle spezie, dalle pietre preziose alle pelli. In ambito artigianale, tra le tante abilità, spiccavano quella della lavorazione delle pelli e soprattutto quella dei tappeti. I tappeti armeni erano particolarmente ambiti e non potevano mancare nei più prestigiosi palazzi che si affacciavano sul Canal Grande. Le merci importate dall’Oriente e vendute dagli armeni, affascinavano per raffinatezza ed originalità la ricca aristocrazia veneziana e si ipotizza che “fra tante ricchezze, un giorno (sicuramente nel XII sec.) sia arrivato, premurosamente ingabbiato, anche quell’inestimabile simbolo d’universale fama della Venezia di ieri e di oggi, il Leone Alato, che svetta su una delle colonne della Piazzetta S. Marco e che a procurarlo sia stato addirittura il celebre Sebastiano Ziani, prima di salire al dogato.”9
Flavia Randi, nel suo Dove si posò l’arca: l’Armenia, accompagna graziosamente il lettore lungo un curioso itinerario armeno-veneziano, e ne stimola la fantasia, soffermandosi su molti interessantissimi e curiosi particolari.10 Seguendone la guida, possiamo far tappa alla Chiesa di S. Salvador dove, in una monumentale tomba marmorea riposa Caterina Cornaro “regina di Cipro, Gerusalemme ed Armenia.”
Nel XV sec. i Corner (in seguito Cornaro) sono una potente famiglia veneziana con cospicui interessi commerciali a Cipro. Qui sostengono finanziariamente il giovane re dell’isola, Giacomo II di Lusignano, di origini francesi, ma imparentato con aristocratiche casate armene, tanto da fregiarsi del titolo di “re di Cipro, di Gerusalemme e d’Armenia.” Per rafforzare maggiormente i legami tra Venezia e Cipro viene celebrato il matrimonio tra la giovanissima Caterina Corner e il sovrano. Unica clausola prematrimoniale: qualora la giovane sposa fosse rimasta anzitempo vedova senza la nascita di un erede, avrebbe ereditato titolo e regno. Ipotesi che fatalmente si avvera. Non passa però molto tempo che Caterina, a seguito di notevoli e reiterate pressioni, cede in dono alla Serenissima la straordinaria eredità lasciatale dal marito. Deve dunque abdicare, ma come contropartita viene proclamata “Signora di Asolo”, di cui riceve pieno possesso e dove continuerà a vivere tra gli agi e il prestigio degni di una sovrana. Il monumento tombale la ritrae proprio nell’atto di deporre la corona nelle mani del doge Agostino Barbarigo.
Se la Serenissima aveva saputo esprimere adeguata riconoscenza a questa sua augusta cittadina per il dono di un regno da lei così facilmente conquistato, non altrettanto può dirsi circa quello straordinario, geniale armeno che fu Anton Surian.
Giunto a Venezia circa ventenne, probabilmente da Cipro, inoltrò una domanda di lavoro indirizzata al doge Girolamo Priuli il 24 giugno 1561. Lavoro che gli fu assegnato all’Arsenale, e dove non tardò a dar prova di capacità e competenze non comuni, tanto da guadagnarsi presto la qualifica di “ingegnere.” Riuscì infatti a coordinare il recupero di un galeone e tre grossi cannoni affondati nel porto; creò un sistema per varare navi di grosse dimensioni e per pulire i fondali dei canali dai depositi melmosi che vi si accumulavano nel tempo. Si ritiene inoltre, che gli debba esser attribuito buona parte del merito della Vittoria di Lepanto, poiché non solo i cannoni di diverso calibro impiegati in quella circostanza erano stati da lui costruiti, ma la sua presenza al momento della battaglia consentì di posizionarli strategicamente, in modo tale che il loro tiro risultò praticamente infallibile.
Tuttavia il contributo maggiore dato da Anton Surian alla Serenissima fu quando vi scoppiò la peste nel 1575. In questa occasione emersero il suo spirito altamente umanitario, oltre che le grandi doti organizzative ed eccezionali competenze mediche. Il governo sapeva che il Surian, grazie ad un farmaco di sua invenzione, aveva precedentemente guarito molti soldati feriti in battaglia. Decise quindi di accettare una sua offerta di aiuto e gli affidò la cura dell’intero sestriere di Dorsoduro. Il Surian si prodigò senza sosta, con competenza e generosità, non esitando ad impiegare una considerevole parte del patrimonio accumulato negli anni, nella sua battaglia contro l’epidemia. Quando questa fu debellata dopo due anni, e molti potevano dire di essersi salvati grazie a lui, il governo della Serenissima diede prova di un’ottusa ingenerosità nei suoi confronti. Quale ricompensa si limitò ad inserirlo stabilmente nell’organico dell’Arsenale e a concedergli la cessione gratuita degli alimenti per il resto della vita. Deluso ed amareggiato, Surian si ammala e comincia a condurre una vita sempre più ritirata. Muore nel 1591. Oggi, quale postumo risarcimento, al suo nome sono intitolati un sotoportego, una calle e una corte.
S. Zulian non era l’unica zona ad alta concentrazione armena di Venezia. Nel 1530 cominciano a giungere diverse famiglie armene provenienti da Giulfa, città sotto la sovranità persiana, sulla riva settentrionale del fiume Araxe, nel Nakhitchevan meridionale. Questi nuclei si concentrano principalmente tra S. Marco e Castello, un una zona che verrà denominata Ruga Giuffa. Si tratta principalmente di mercanti, impegnati nel rifornimento di materie prime – lana, cotone, seta, lino – alle manifatture tessili veneziane; altro settore di loro competenza era quello dei coloranti. Non mancavano anche artigiani specializzati nella lavorazione del corallo e delle pietre preziose.
La fama dei mercanti armeni in Venezia e il loro peso sociale sono rispecchiati anche nell’opera di Carlo Goldoni. Non solo incontriamo la figura di un mercante armeno – dipinto con non poca ironia – ne La famegia de l’antiquario, ma la Trilogia di Arcana, comprendente La sposa persiana, Ircana in Julfa e Ircana in Ispania, descrive armeni provenienti da Giulfa e Isfahan.11
Che gli artigiani e i commercianti armeni di Giulfa fossero molto abili lo aveva ben capito lo scià Abbas il Grande, che regnò per ben quarant’anni, dal 1587 al 1628. Alle doti imprenditoriali, gli armeni di Giulfa univano un’ampia rete di collegamenti commerciali ed interpersonali o parentali con l’Occidente. Per queste loro caratteristiche, lo scià ordina che queste interessanti popolazioni vengano trasferite in massa a Isfahan, città molto più meridionale e strategicamente sicura, e che, nei suoi progetti doveva divenire una capitale ricca di bellezze artistiche e centro economico di primo piano del suo impero. Dopo un drammatico trasferimento durato quattro mesi, gli armeni giungono ad Isfahan, dove fondano un nuovo quartiere, denominato Nuova Giulfa. Qui godono di una considerevole libertà, sia in campo religioso che civile, e di un’indiscussa fiducia da parte del sovrano. Quando questi perciò comincia a scorgere in Venezia un interlocutore di primo piano in ambito economico, chi meglio dei suoi fedeli sudditi armeni di Nuova Giulfa poteva fare da tramite tra il suo paese e la Serenissima? Tra questi, i primi ad aprire, nel 1612, un vero e proprio ufficio di rappresentanza commerciale a Venezia sono gli Scerimanian, più noti in seguito come Sceriman. Si occupano principalmente del mercato di pietre preziose, tessuti, pellicce, tabacco, spezie; in seguito non tralasceranno il commercio di immobili e si occuperanno anche di agricoltura, con la coltivazione del riso nell’entroterra veneto. Da subito dimostrano di possedere ingenti capitali ed abilità imprenditoriali non comuni. Quando poi Venezia diventa il centro europeo specializzato nel taglio dei diamanti, l’intraprendente famiglia si concentra in particolare sul mercato dei preziosi. Quando giungono a Venezia, gli Sceriman sono già in possesso di un cospicuo capitale e, fatto più importante, godono di appoggi di rilievo in ambito internazionale. Basti pensare che il capostipite Zaccar, assieme ad altri nove armeni, era riuscito a farsi ricevere dallo zar Aleksej Romanov, recandogli in dono un trono d’argento laminato in oro, con incastonate diverse centinaia tra brillanti, pietre preziose e perle. Questo preziosissimo trono fa parte del tesoro dei Romanov ed è oggi conservato al Museo dell’Armeria, a Mosca, nel territorio del Cremino. Lo zar in cambio concesse agli Sceriman condizioni di commercio favorevolissime all’interno di tutto l’impero russo e diede in dono un’incalcolabile quantità di pellicce di zibellino.
Anche il ramo della famiglia rimasto a Nuova Giulfa viveva nel lusso e nel prestigio, godendo della benevolenza dello scià Abbas, che riconobbe a tutti gli Sceriman il nobiliare titolo di malik.
Il ramo “veneziano” della famiglia nel frattempo aumentava capitale e prestigio sociale grazie ai buoni affari e ad una serie di matrimoni altolocati. Qui però, vuoi per ragioni familiari-matrimoniali, vuoi per allacciare solidi rapporti con la Chiesa di Roma, gli Sceriman scelgono di convertirsi al Cattolicesimo. Questa svolta fu accolta con non poco disappunto da parte della Chiesa Apostolica Armena di Nuova Giulfa, ma ormai gli Sceriman che avevano in Zaccar il loro capostipite si dimostrano sempre più affezionati cittadini della Serenissima. Infatti, in un periodo in cui la casse dello stato erano sempre più vuote e Venezia perdeva progressivamente potenza e ricchezza, sono proprio questi “re della finanza europea e mediorientale”12 a prestare alla Repubblica due milioni in ducati d’oro a fondo perduto.
Quando poi Venezia cadrà sotto il dominio francese prima, ed austriaco poi, i diversi discendenti della dinastia degli Sceriman metteranno a frutto capitali ed abilità presso altri territori. A Venezia rimane comunque Giambattista Sceriman che si fa eleggere responsabile della Commissione di pubblica beneficenza. Per dare una sede a questo istituto, Giambattista stesso acquista in Lista di Spagna un palazzo che tutt’oggi porta il nome della sua prestigiosa famiglia ed è sede della Regione Veneto. Al suo interno un busto marmoreo lo ricorda quale “benefattore” della città.
Tra i discendenti degli Sceriman veneziani, val la pena di ricordare Fortunato Sceriman, poeta in lingua italiana, veneta e friulana, nonchè giornalista e pubblicista a servizio del Regio Commissario dell’Impero Austro-Ungarico nella prima metà dell’800, e prima ancora il più noto Zaccaria Sceriman (1708-1784), abate del monastero benedettino di S.Giorgio ed autore di varie opere su argomenti disparati, tra cui spicca l’originalissima satira politica intitolata Viaggi di Enrico Wanton nei regni delle scimmie e dei cinocefali.
San Lazzaro: un faro per tutti gli armeni dispersi nel mondo
Il poeta armeno sovietico Hovannes Shiraz, in una poesia composta in occasione del 250° anniversario dell’insediamento di Mechitar a S.Lazzaro, scrive:
“Isola armena in acque straniere,
con te si rinnova la luce dell’Armenia”13
Se pensiamo che questi versi furono composti in anni in cui il regime era poco incline a dar voce a fonti di ispirazione non prettamente laiche e politicamente schierate, emerge quanto l’isola di San Lazzaro sia sempre stata un punto di riferimento irrinunciabile per il popolo armeno.
Un aneddoto a dimostrazione di questa tesi: nei primi anni ’80, quando non si riusciva a trovare nelle librerie di Erevan alcuni libri, ad esempio testi scolastici per lo studio della lingua armena, accadeva che la commessa, con naturalezza dicesse: “Quello che cerca lo pubblicano a Venezia, in Italia”, alludendo ovviamente alla casa editrice di S. Lazzaro, “bisognerebbe cercarlo là.”
Ma veniamo ora a ricostruire la storia di questa “piccola Armenia” e del suo geniale fondatore, Padre Mechitar.
Nato a Sebaste (oggi Sivas) il 17 febbraio 1676, il suo vero nome è Manuk. A quindici anni diventa diacono e, come consuetudine, cambia il nome di battesimo, divenendo Mechitar, che significa “il consolatore”. Entra nel monastero di Santa Croce nella città natale e da subito manifesta una forte personalità, tesa allo studio e al sapere; poco incline ad adeguarsi agli interessi dei monaci di Santa Croce, sia pur giovanissimo, comincia una peregrinazione che in pochi anni lo porta a Etchmiadzin, Sevan, di nuovo a Sebaste, quindi a Erzurum. Mechitar è animato da un’ansia di ampliare i propri orizzonti. Nel 1691 incontra a Erzurum un sacerdote gesuita – Jacques Villote – che gli fa conoscere la cristianità occidentale. Si ritiene che questa figura, assieme agli scritti di Nerses Shnorhali, abbiano creato le fondamenta di quel pensiero in senso ecumenico che ha ispirato e guidato per tutta la vita le scelte di Mechitar. Egli “ebbe infatti una coscienza profonda dell’unità cristiana […] nel più totale rispetto della fisionomia e della cultura spirituale propria di ciascuna Chiesa locale e nazionale, come pure nella loro autonomia amministrativa.”14 È stato da più parti riconosciuto che Mechitar anticipò di ben due secoli quella prospettiva di Chiesa Universale che stette alla base del Concilio Vaticano II voluto da Giovanni XXIII. Il valore della sua modernissima concezione di unità cristiana gli verrà riconosciuto il 22 ottobre 1977, in occasione del terzo centenario della nascita, durante una cerimonia in Palazzo Ducale, presenti alte autorità civili e religiose.
Ma, tornando alla sua biografia, nel 1696 Mechitar viene ordinato sacerdote. Trasferitosi a Costantinopoli, si fa presto notare per le doti di predicatore. È in questo periodo che, acquisito un notevole seguito, comincia a maturare l’idea di fondare un nuovo ordine. Idea che però non era opportuno render nota, viste le agitazioni in atto in quel periodo contro gli armeni cattolici. Costoro dovevano fronteggiare l’atteggiamento ostile non solo degli apostolici, ma anche dei cattolici romani, che giudicavano gli orientali inferiori culturalmente. A questo si aggiunga la diffidenza della Sublime Porta che vedeva negli armeni cattolici potenziali nemici, se non addirittura coinvolti in attività di spionaggio al soldo delle potenze occidentali. Ipotesi questa che veniva suffragata dallo stesso Patriarca armeno di Costantinopoli. Questa situazione, nel 1701, costrinse Mechitar e i suoi discepoli a cercar rifugio in Morea (Peloponneso), allora dominio della Repubblica di Venezia. Qui, grazie al benevolo appoggio del governatore Angelo Emo, il gruppo di monaci riesce, sia pur tra mille sacrifici, a costruirsi una chiesa e un monastero. Giudicato che i tempi erano finalmente maturi, Mechitar inoltra al pontefice Clemente IX la richiesta di costituzione di un nuovo ordine, basato sulla regola di S. Antonio – povertà, castità, obbedienza – cui si aggiunge quello della missione. L’approvazione arriva dopo sei anni, nel 1711. Ma quando per la piccola comunità sembra essersi avviata una fase di tranquillità materiale e di gioia spirituale grazie anche all’accresciuto seguito dei fedeli, una nuova dura prova li costringe ad intraprendere la strada dell’esilio che li condurrà a Venezia: a causa dell’imminente scoppio della guerra tra Impero Ottomano e Repubblica Veneta Mechitar si trova costretto ad abbandonare quanto aveva faticosamente costruito. La scelta della nuova meta cade su Venezia, dove egli sapeva esserci una numerosa ed accogliente comunità armena. Assieme ad una decina di confratelli – altri lo raggiungeranno in seguito -, salpa da Modone, nel sud-est della Morea, e a bordo di una modesta nave da carico, la “San Cirillo”, battente bandiera della Serenissima, approda a Venezia il 2 aprile 1715. Dopo la prevista quarantena, il gruppo di monaci alloggia in una casa in S. Martino di Castello, rimasta tutt’ora intatta e sulla cui parete una lapide marmorea ne ricorda con esattezza la presenza dal 12 maggio 1715 all’8 settembre 1717. Non essendo questa una sistemazione idonea, Mechitar si rivolge a conoscenze autorevoli in ambito civile ed ecclesiastico ed ottiene dal Senato l’autorizzazione a scegliersi un luogo adatto, purchè sia fuori dal centro cittadino dove, per precedente decreto, non era autorizzata la collocazione di nuove congregazioni religiose. Dopo accurato esame, Mechitar richiede San Lazzaro, facilmente raggiungibile sia da Venezia che dal Lido e già dotata di una chiesetta ed un piccolo edificio abitabile, anche se alquanto fatiscente.
Il 26 agosto 1717 il Senato veneziano concede in perpetuo l’Isola di San Lazzaro alla Congregazione mechitarista, doge Giovanni Corner, discendente di Caterina Corner (Cornaro). I restauri, gli ampliamenti e l’edificazione del chiosco sono effettuati su progetto dello stesso Mechitar.15 Risolti i problemi logistici, poterono quindi aver inizio quelle attività in campo umanistico ed educativo di cui Mechitar è stato pioniere geniale e che, con la forza di una missione, ha tracciato un solco fondamentale per la sopravvivenza, la diffusione e la crescita della cultura armena. Ritenendo che la catechesi passi anche attraverso la cultura ed intuendo che l’editoria può essere un mezzo potente per la diffusione di entrambe, nel 1789 crea una tipografia: avvia quindi un’enorme attività di traduzione di classici italiani in lingua armena e la pubblicazione di classici armeni, sia in “grabar” che in “volgare”. Per quanto riguarda quest’ultimo, Mechitar fu un precursore, poiché nel ‘700 non aveva assunto ancora la dignità di lingua letteraria. È opera sua anche il Thesaurus della lingua armena (Bargirkh Haykazean Lezui), vocabolario in più volumi.
All’attività editoriale è connessa la creazione della biblioteca che attualmente conta più di cinquantamila volumi in lingua armena ed altrettanti in altre lingue. Vi sono inoltre raccolti i più importanti tra giornali e periodici in lingua armena editi sia in Armenia che nella diaspora. Anche la raccolta dei manoscritti antichi, preziosissimo patrimonio non solo per gli armeni, ma per l’intera umanità, inizia con Mechitar. Fondamentale si dimostrò anche l’attività educativa, da lui avviata. Una sorta di sasso nello stagno, poiché nel corso degli anni verranno fondati nel mondo ben quaranta istituti scolastici mechitaristi, con sedi che spaziano da Buenos Aires a Trieste, da Los Angeles a Madras. Istituti nei quali si formeranno molti intellettuali, scienziati, artisti armeni della diaspora, alla ricerca di un polo di attrazione dove acquisire, accanto ad una solida base culturale, una più profonda consapevolezza delle proprie antiche origini.
Un’altra iniziativa in cui Mechitar dimostrò di essere all’avanguardia, fu la creazione di un teatro in cui far lavorare i propri discepoli. A partire dal 1730 cominciarono ad esser messi in scena testi su soggetti religiosi, storico-patriottici, ma anche satire di costume. Da S. Lazzaro questo tipo di teatro si propagò in altri centri, tra cui Costantinopoli e Parigi.
L’opera di Mechitar fece sì che la nazione armena, che stava attraversando un periodo di crisi culturale e spirituale si risollevasse. “Mechitar – afferma Claudio Gugerotti – diede alla cultura armena uno slancio inedito e certamente straordinario proprio perché comprese, con intelligenza rara, che si poteva essere cosmopoliti senza snaturarsi, e finì con l’essere contemporaneamente il campione di questa apertura all’altro da sé, senza dare pretesto ad alcuno di accusarlo di perdita della propria identità armena.”16
Mechitar muore il 27 aprile 1749.
La sua opera continuerà ad essere perpetuata dai suoi successori che fortunatamente in alcuni momenti cruciali daranno prova di tempra e spirito di iniziativa degni del loro padre fondatore. Si pensi in particolare al Padre Abate Stefano Akontz (1800-1824) che, con una stamperia in piena funzione ed un’attività culturale ormai molto intensa, rischiava di vedersi confiscare e smantellare il frutto di tanto lavoro, quando Napoleone si impadronì di Venezia. Dal 1805 vigeva un provvedimento che stabiliva l’abolizione di parecchi ordini religiosi nelle terre conquistate da Napoleone. Sarebbe stata la fine dell’opera per cui Mechitar aveva vissuto e tanto lottato. Padre Akontz però non intende rinunciare a lottare e riesce a metter in moto una così raffinata macchina diplomatica che, a seguito di un colloquio con lo stesso Napoleone, ottiene da questi un decreto (4 settembre 1810) in cui si dichiara che “I monaci armeni dell’Isola di San Lazzaro di Venezia sono conservati nell’attuale loro stato”. Non solo, ma il convento assurge al ruolo di Accademia di Scienze e come tale gode di diritto di benevolenza dell’imperatore. Da allora nessuno avrebbe più cercato di togliere ai mechitaristi quanto il doge Corner aveva donato a Mechitar.
In quegli stessi anni, precisamente a partire dal 1816, l’isola di San Lazzaro ha un ospite tutt’altro che votato alla vita monacale: si tratta del poeta inglese George Gordon Noel Byron, più noto come Lord Byron. Pur portato agli eccessi mondani in casa delle innumerevoli nobili amanti, ricade spesso in stati di melanconia e depressione, e in questi momenti, quando cerca di far ordine nel suo spirito tormentato, si rifugia dai benevoli padri mechitaristi. Qui decide di studiare la lingua armena, giudicandola la più difficile in assoluto, e come tale un buon esercizio per la mente, una sorta di terapia antidepressiva. Ne acquisisce in breve tempo una buona padronanza, tanto da cimentarsi nella traduzione in inglese di classici come Mosè di Corene e Nerses di Lambron. Ed è nella pace tra i mechitaristi che trova l’ispirazione per creare opere quali Il pellegrinaggio del giovane Aroldo e Don Giovanni.
Riflettendo al ruolo di S.Lazzaro e al legame venutosi a creare tra gli armeni e Venezia, Boghos Levon Zekiyan scrive: “Il patrimonio armenologico di San Lazzaro costituisce, insieme a quello della Congregazione consorella mechitarista di Vienna, un caso singolare in tutto l’Occidente, di una testimonianza storica così completa di una cultura medio-orientale. […] Quando, più di 250 anni orsono, un giovane monaco armeno profugo chiese protezione e asilo per il suo Ordine, da poco fondato, alle maggiori autorità veneziane, la Serenissima sicuramente vide in lui quasi un simbolo di quell’Armenia con la quale aveva mantenuto sin dal Medioevo i più stretti rapporti commerciali e culturali. […] Nel medesimo tempo la Serenissima colse negli intenti dell’umile religioso una delle più valide e vive testimonianze di quella funzione di ponte e di punto di incrocio tra Oriente e Occidente che fu sempre una delle caratteristiche più salienti della missione di Venezia in seno alla cultura italiana ed europea, come lo fu pure del popolo armeno e della sua cultura.”17
Il Moorat-Raphael di Venezia, ovvero “Il Collegio”
Sono in molti, tra gli ex-allievi del collegio mechitarista Moorat-Raphael di Venezia ad essersi fermati, negli ultimi decenni, definitivamente in Italia. Provenienti dal Libano, dall’Iran, dalla Siria, da Istanbul o da altri centri diasporici, hanno poi continuato l’università nel nostro paese e vi hanno costruito le loro vite. Quando ne parlano tra loro lo definiscono semplicemente “il Collegio”, e tutta la loro esperienza scolastica e di studi, precedente e successiva, non sembra aver lasciato alcun segno significativo, nulla comunque di paragonabile a quegli anni fondamentali di crescita umana, psicologica e culturale. Uno di questi, Baykar Sivazliyan, ora docente di lingua e letteratura armena all’Università di Milano, in due significativi studi sui rapporti tra l’Armenia e il Veneto, raccoglie una serie di testimonianze-interviste tra gli armeni che vivono nel Veneto, e molti tra questi sono stati proprio allievi del prestigioso Moorat-Raphael. Da studioso, e non solo da ex-allievo, egli non esita a definire il Collegio “perla della propagazione della cultura armena di Venezia, attraverso l’opera dei suoi alunni e dei suoi insegnanti. […] Faro di scienza, ma soprattutto di amenità.”18
Ma vediamo come nacque e si sviluppò questa straordinaria istituzione.
Nel 1834, per volontà testamentarie di due mercanti armeni - suocero e genero - i cui nomi sono appunto Moorat e Raphael, viene fondato in Prato della Valle a Padova il Collegio Moorat. Dopo due anni, nel 1836, a Ca’Pesaro in Venezia viene fondato il Collegio Raphael, che di lì a poco viene trasferito a Ca’Zenobio, sestriere di Dorsoduro. Il Moorat nel frattempo da Padova si sposta a Parigi, dove rimane fino al 1870. Di qui ritorna in Italia, per fondersi definitivamente con il suo gemello di Ca’Zenobio ed assumere quindi l’attuale denominazione di Moorat-Raphael. Successivamente, nel 1928, si riaprirà il Moorat di Parigi per i bisogni della numerosa comunità armena di Francia. “Ambedue i collegi, ma soprattutto quello di Venezia svolsero un ruolo di primo piano nella cultura armena, in quanto vi si formò una buona parte degli intellettuali armeni più celebri del secolo scorso.”19 Queste parole di Boghos Levon Zekiyan sono confermate dallo stesso Sivazliyan, il quale sostiene che il Collegio è stato “centro di produzione di idee e di concetti politici, adatti ad affrontare, e in qualche caso a risolvere, le problematiche del mondo armeno […] in modo particolare a cavallo dei due secoli” della sua esistenza.20 Infatti egli osserva che, quando a fine ‘800 a Costantinopoli emerse la necessità di far dialogare diverse componenti, sia politiche che religiose, di un’inteligencija armena quanto mai in fermento, furono gli ex-studenti del Collegio ad assumere il ruolo di mediatori, portando soluzioni pacificatrici.
Tra gli studenti illustri, un nome su tutti: quello di Daniel Varujan, di cui si è già parlato, e che ebbe a ritenere fondamentali, per la propria formazione, gli anni veneziani.
Passando ai giorni nostri, il Moorat-Raphael fu la prima scuola della diaspora ad aprire le porte ai giovani della Repubblica d’Armenia da poco indipendente, ma già negli anni immediatamente successivi al devastante terremoto del 1988, aveva ospitato molti giovani di Vanadzor e Spitak, in un’azione di assistenza concertata con la Regione Veneto.
Nel 1997, per mancanza di fondi il Moorat-Raphael è stato costretto a chiudere definitivamente i battenti, con profondo ed immutato rammarico di molti tra i suoi ex-allievi. Oggi, il bellissimo Salone degli Specchi che si trova al primo piano, ospita occasionalmente concerti, convegni, mostre ed incontri di interesse armenologico, mentre d’estate le stanze in cui alloggiavano gli studenti fungono da spartano albergo per giovani turisti.
Padova: piccolo, ma sempre più significativo polo armeno
Tra le prime testimonianze di una presenza armena a Padova, sorgeva nel XIV sec. in borgo Ognissanti (oggi via Belzoni) la chiesa di Nostra Signora di Nazaret, chiamata anche S. Maria Armeniorum. I frati armeni ivi preposti, dovettero però trasferirsi altrove, nel 1348, per lasciar posto all’ordine degli Olivetani.
Nel XIX sec. troviamo segni molto evidenti di una autorevole ed influente presenza armena nel cuore della Città del Santo. Il 15 agosto 1834 apre infatti i battenti il Collegio Samuel Mooratian, in Prato della Valle; all’epoca i Padri Mechitaristi acquistarono alcuni terreni dietro a Prato della Valle allora adibiti ad uso agricolo. Come sappiamo, nel 1846 il collegio armeno di Padova venne trasferito a Parigi, ed in seguito nascerà il celebre Moorat-Raphael, secondo le modalità precedentemente descritte. Attualmente, il palazzo che ospitava il Collegio Mooratian è sede del Circolo Ufficiali di Padova.
Prato della Valle è un luogo armeno significativo, anche perché in una casa oggi corrispondente ai numeri civici 42-44, nacque nel 1855 la poetessa di origini armene Vittoria Aganoor; a questa è anche dedicata una laterale di via M. Sanmicheli.21
Oggi a Padova abita una piccola, ma attiva comunità armena: si tratta di una decina di famiglie, che da anni sono solite darsi appuntamento, due volte al mese per assistere alla celebrazione della S. Messa in rito cattolico armeno officiata da Padre Levon Boghos Zekiyan. Attualmente questa ha luogo nella Sala del Capitolo, presso la Basilica del Santo. È un momento di armonica comunanza, non solo nella fede, ma anche nella espressione di una cultura e di un sodalizio, in cui armeni ed amici degli armeni, si ritrovano con gioia. Il desiderio di mantenere salde le tradizioni è anche trasmesso dal piccolo, volonteroso coro che, sotto la preziosa guida della sua maestra, intona gli inni sacri che accompagnano i diversi momenti del rito.
Nel 2008 è stato pubblicato dalla Biblioteca Universitaria di Padova un catalogo di Libri armeni dei secoli XVII – XIX nella Biblioteca Universitaria di Padova, relativo ad un fondo di 468 libri, di cui 457 in caratteri armeni. Una sorta di tesoro rimasto lungamente dimenticato – un po’ come l’antica mappa di Bologna – e scoperto con gioiosa meraviglia da armenisti e docenti patavini. Si tratta principalmente di testi editi dalla Sacra Congregazione della Propaganda Fide (Roma), dalla nota tipografia veneziana di Antonio Bortoli e dalla celebre e fondamentale tipografia Mechitarista di San Lazzaro degli Armeni. Le opere in questione vanno dalle traduzioni di classici, quali l’Iliade, ad opere di carattere teologico e testi sacri – ad esempio un raffinata edizione della Bibbia di Mechitar – a dizionari, grammatiche, testi di matematica, botanica, etc.
Infine, è importante ricordare che il Comune di Padova ha riconosciuto ufficialmente il genocidio del popolo armeno del 1915 e da anni la città, con il patrocinio e la partecipazione delle autorità comunali, celebra ogni 24 aprile la memoria del Grande Male, scegliendo modalità diverse, ma ugualmente significative. Quale testimonianza di tale tragedia è stato affisso, nel cortile interno di Palazzo Moroni, sede del Municipio della città, un bassorilievo opera dello scultore armeno libanese Mossik Guloyan.
Ultime spigolature armeno-venete
A cercare quanti altri segni di presenze armene sono disseminate nel Veneto ci vorrebbe forse un capitolo intero. Ne citiamo solo alcuni, molto diversificati tra loro.
A Treviso, una delle porte che sorgono lungo le antiche mura medievali, reca il nome di Porta Santi Quaranta, ma ben pochi tra i trevigiani sanno che il suo nome allude ai Quaranta Martiri di Sebaste. Erano questi quaranta soldati provenienti da diversi luoghi della Cappadocia, ma tutti appartenenti alla XII Legione “fulminata” (veloce) di stanza a Melitene nel 320 d. C., caduti vittime della persecuzione anticristiana messa in atto da Licino Valerio. Arrestati perché cristiani, fu loro posta l’alternativa di abiurare la propria fede o subire la morte per assideramento, essendo esposti nudi sopra uno stagno gelato. Il martirio ebbe luogo il 9 marzo a Sebaste (odierna Sivas in Turchia) e in tale data viene, presso gli armeni, celebrata la loro festa. Inoltre, in base ad alcuni ritrovamenti archeologici è stato dimostrato che attiguo alla Porta Santi Quaranta sorgeva un monastero.
Alla città di Sebaste è anche legata la figura di S. Biagio: questi infatti era armeno di nascita e fu vescovo della città durante le persecuzioni di Licino, di cui cadde egli stesso vittima. In suo onore sono stati eretti molti santuari, chiese e cappelle, in Italia e in Europa. A Roma molto nota è la chiesa detta S. Biagio della “Pagnotta”, nome derivatole dall’usanza di distribuire ai fedeli nel giorno dedicato al santo dei pani benedetti.
Il 25 agosto 1929 un armeno residente ad Asolo, l’ingegnere Ohannes Gurekian, scala per primo la vetta di una cima dolomitica tra la Forcella del Pizzon e il Monte Agner, cui viene dato il nome di “Torre Armena.” Attualmente, nell’Agordino a 1730 mt è meta di escursioni e centro di interessanti iniziative culturali legate alla montagna il Rifugio Scarpa-Gurekian. Questo nacque proprio grazie al sodalizio tra Ohannes Gurekian, che fu anche presidente del C.A.I. di Agordo dal 1933 al 1946, e il pittore ed alpinista veneziano Enrico Scarpa, con cui condivise l’amore per la montagna.
Una tradizione armena vuole che i Cavalli di San Marco siano stati in origine recati in dono a Nerone dal re d’Armenia Tiridate I, in occasione della sua incoronazione.
In Italia vi sono molti cognomi di origine armena, ma con il tempo sono stati italianizzati. In alcuni casi ciò è avvenuto, sin dalle prime fasi migratorie, per scelta degli stessi armeni che preferivano “mimetizzarsi” anagraficamente, in un periodo in cui, per decreto, un immobile nella città di Venezia non poteva essere acquistato da stranieri. Altre motivazioni, più drammatiche sono state quelle dei sopravvissuti al genocidio, che, ancora traumatizzati, intravedevano, ovunque si trovassero, potenziali rischi per sé e per i propri figli e decidevano di modificare il proprio cognome traducendolo o accorciandolo e togliendoci l’inequivocabile suffisso –ian. Un momento di comprensibile iniziale paura fu da molti vissuto quando il nazifascismo mise in atto la campagna antiebraica. Solo in un secondo momento gli armeni capirono che, in quanto cristiani, non sarebbero stati toccati. Ma tornando allo specifico dei cognomi, possiamo qui fornire alcuni esempi di come dei cognomi armeni si sono trasformati: Oskanian – Onorato; Noradunkian – Casanova (traduzione); Mikayelian – Michieli; Atamian – Atami/Adami; Kanzian/Chandjian – Canzian; Mardirossian/Martirossian – Martilengo; Duzian – Duse; Arslanian – Arslan. Gli ultimi due attirano in particolare l’attenzione, poiché il primo ci fa dedurre che la celebre attrice Eleonora Duse avesse origini armene, mentre il secondo attesta come il ramo padovano della celebre famiglia cui appartiene la scrittrice Antonia Arslan, abbia subito questo accorciamento, e ciò avvenne per espressa volontà del celebre nonno di lei Yervant, proprio a seguito della drammatica perdita del ramo degli Arslanian rimasto in Anatolia. Ultima precisazione: il suffisso –ian sta per “figlio di”; similmente in inglese incontriamo cognomi quali Robertson (ovvero figlio di Robert), Johnson, etc. In armeno incontriamo ad esempio Vartanian (figlio di Vartan), Hovannessian (figlio di Hovannes), e così via.
Note:
1. “Al Museo Archeologico di Venezia vi è un piccolo bronzetto che raffigura Nerone seduto sul trono nell’atto di ricevere la sottomissione di Tiridate. La statuetta è stata rinvenuta presso Oderzo (Treviso) nel 1911.” Cfr. F. Randi e S. Luginbühl Dove di posò l’Arca: l’Armenia, Ed. ADLE Padova 2004.
2. Gaianè Casnati, Presenze armene in Italia. Testimonianze storiche ed architettoniche in “Gli Armeni in Italia” AA.VV. De Luca Edizioni d’Arte Venezia/Padova 1991, p.28.
3. B. Levon Zekiyan, Gli Armeni e l’Occidente in “Gli Armeni in Italia”, già cit. p. 24.
4. Aldo Ferrari, Gli Armeni in Italia: commercio, religione e cultura in “Dal Caucaso al Veneto – Gli Armeni tra storia e memoria” di B. L .Zekiyan, A. Arslan, A. Ferrari. Ed. ADLE Padova, 2000, pag.56.
5. Gaianè Casnati, già cit. p.28.
6. Originariamente fondato nel 1584, con la dicitura di Collegio per la Nazione Armena, venne chiuso dopo soli 7 mesi per mancanza di fondi. Nel marzo 1883 papa Leone XIII istituì il Nuovo Collegio Armeno per chierici armeni. Tra gli anni 1883-1983 fu frequentato da quasi trecento studenti. L’attuale sede fu eretta negli anni 1939-1943 e al suo interno possiede una cappella in stile armeno, al primo piano dell’edificio.
7. A. A. Novello e A. Pansa , L’architettura armena e l’Italia in “Gli Armeni in Italia” già cit. pag. 58.
8. B. L. Zekiyan, Gli Armeni a Venezia e nel Veneto e San Lazzaro degli Armeni in “Gli Armeni in Italia” già cit. pag. 40.
9. A. Hermet e P.Cogni Ratti di Desio, La Venezia degli Armeni. Sedici secoli tra storia e leggenda, Ed. Mursia Milano 1993, pag. 54.
10. F. Randi e S. Luginbühl, Dove si posò l’Arca: l’Armenia, Ed. ADLE Padova 2004, pag. 83-87.
11. v. La trilogia di Ircana di Carlo Goldoni, Neri Pozza ed. Vicenza, 1993.
12. F. Randi e S. Luginbühl, Dove si posò l’Arca: l’Armenia, Ed. ADLE Padova 2004, pag. 103.
13. B. L. Zekiyan, La visione di Mechitar del mondo e della Chiesa in “Gli Armeni e Venezia. Dagli Sceriman a Mechitar: il momento culminante di una consuetudine millenaria” Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia 2004, a cura di B. L. Zekiyan e A. Ferrari, pag. 178.
14. Ibid. pag. 191.
15. Un secolo dopo, nel 1814, grazie all’intervento dell’imperatore Francesco I d’Asburgo, la superficie dell’isola viene quasi raddoppiata, divenendo di 15mila mq. Un ulteriore ingrandimento verrà effettuato a metà ‘900, fino a raggiungere gli attuali 30mila mq.
16. Claudio Gugerotti, La figura e l’opera di Mechitar nel contesto della cultura europea e cristiana in “Gli Armeni e Venezia” Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia 2004, pag. 168.
17. B. L. Zekiyan, Gli Armeni a Venezia e nel Veneto e san Lazzaro degli Armeni in “Gli Armeni in Italia” De Luca Edizioni d’Arte, VE/PD, 1991, pag. 42.
18. Baykar Sivazliyan, Del Veneto, dell’Armenia e degli Armeni (La memoria dell’integrazione) Regione Veneto – Ed. Canova Dosson di Casier (Treviso) 2003, pag. 37.
19. B. L. Zekiyan, Gli Armeni a Venezia e nel Veneto e San Lazzaro degli Armeni in “Gli Armeni in Italia” De Luca Edizioni d’Arte, VE/PD, 1991, pag.42.
20. Baykar Sivazliyan, Del Veneto, dell’Armenia e degli Armeni (La memoria dell’integrazione), Regione Veneto Ed. Canova Dosson di Casier (Treviso), 2003, pag. 37.
21. Flavia Randi, Sirio Lunginbühl Dove si posò l’Arca: l’Armenia, Ed. ADLE, Padova 2009
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