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3 Marzo 2016: la replica di Ghazaryan- È rivoltante accusare di genocidio il popolo che è stato vittima del primo genocidio del XX secolo.
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Ambasciata Armena:
la replica di Ghazaryan
di Redazione
03 marzo 2016ESTERI
Egregio direttore Diaconale, ho letto con attenzione l’articolo di Domenico Letizia “Il Massacro di Khojaly” e le dichiarazioni del neodesignato ambasciatore azero in esso riportate. È rivoltante accusare di genocidio il popolo che è stato vittima del primo genocidio del XX secolo. E se lo fa l’ambasciatore designato di un regime autoritario diventa addirittura ridicolo. Non si può parlare di Khojaly senza ricordare il conflitto in Nagorno-Karabakh e la morte di 35mila armeni e azeri nel quasi totale silenzio internazionale, vittime civili a cui va il mio cordoglio. Oltre che rivoltante - e aggiungerei ridicolo - è quanto mai grave che un giornalista, che opera in regime di libertà di stampa garantita in Italia, si presti a fare da cassa di risonanza per uno dei regimi più liberticidi d’Europa, che nelle sue carceri detiene più di 100 tra giornalisti e intellettuali azeri e che si diverte a stilare liste nere di cittadini esteri “non graditi”, tra cui 38 italiani e molti giornalisti.
Consiglierei all’ambasciatore azero di provare a farsi un’idea delle cause e delle dinamiche del conflitto in Nagorno-Karabakh da fonti diverse rispetto alla propaganda di Stato. La Storia non è una coperta che può essere tirata da una parte e dall’altra a seconda delle necessità del regime di turno. Sia gli atti delle organizzazioni internazionali che la letteratura accademica competente in materia parlano di progrom contro gli armeni e di uso dello strumento militare nella regione del Nagorno-Karabakh da parte azera come causa del conflitto e non certo de “l’aggressione militare dell’Armenia contro l’Azerbaijan”.
Secondo l’ambasciatore azero, “ciò che è accaduto a Khojaly rappresenta l’incarnazione dell’essenza dell’aggressione dell’Armenia contro l’Azerbaigian, così come il culmine delle atrocità commesse verso i civili azerbaigiani da parte delle forze militari dell’Armenia durante il conflitto”.
Invito il mio collega appena arrivato in Italia a rendersi conto che l’attribuzione della responsabilità dell’uccisione di civili azeri da parte delle truppe armene è stata ormai superata sulla base di prove fattuali da una moltitudine di fonti azere e da quei pochi giornalisti occidentali attivi in Caucaso agli inizi degli anni Novanta. Comprendo anche che il mio collega debba rendere conto a un governo illiberale e feroce, che non tollera voci di dissenso al suo interno, figuriamoci nella verticale diplomatica, ma trovo rozze e scontate le sue argomentazioni. Una bugia non diventa verità se viene ripetuta a oltranza, e questo un diplomatico di alto rango dovrebbe saperlo. La storia del massacro di Khojaly ci racconta qualcosa di diverso dalla narrazione del regime azero. E l’uso improprio di termini come “genocidio” evidenziano ancora di più l’impasse e la difficoltà in cui si trova il nuovo capo della sede diplomatica azera in Italia. Come è noto agli esperti indipendenti, il comune di Khojaly era un avamposto dei lanciarazzi Grad delle forze armate azere, che avevano come obiettivo la popolazione civile armena.
Alcuni giorni prima del 25 febbraio del 1992, il comando delle forze armene di autodifesa del Nagorno-Karabakh cominciò a informare via radio le autorità militari e la popolazione civile azere sull’imminenza di una azione militare armena tesa a neutralizzare i lanciarazzi azeri posti all’interno di Khojaly e sulla presenza di un corridoio umanitario per l’evacuazione dei civili. Come riportato da fonti azere (Khojaly: chronicle of genocide, Baku, 1993, pag. 31), Salman Abbasov, un abitante di Khojaly, dice: “Alcuni giorni prima della tragedia, gli armeni hanno ripetutamente annunciato via radio che sarebbero avanzati nella nostra direzione e ci chiedevano di lasciare la città (…). Infine quando fu possibile evacuare donne, bambini e anziani, loro, gli azeri, ce lo vietarono”. Nella stessa fonte (Khojaly: chronicle of genocide, Baku, 1993, pag. 16), Elman Mamedov, all’epoca sindaco di Khojaly, dichiara: “Alle 20,30 del 25 febbraio fummo informati che i mezzi militari armeni erano in posizione di combattimento nelle vicinanze della città. Informammo tutti via radio. Io chiesi elicotteri per evacuare anziani, donne e bambini. L’aiuto non arrivò mai...”.
Illuminante è anche la testimonianza di Ramiz Fataliev, presidente della Commissione di indagine sugli eventi di Khojaly: “Quattro giorni prima degli eventi di Khojaly: il 22 febbraio, alla presenza del Presidente, del primo ministro, del capo del Kgb e di altri, ebbe luogo una sessione del Consiglio di sicurezza nazionale (dell’Azerbaijan) durante la quale venne presa la decisione di non evacuare i civili da Khojaly”. Da questa dichiarazione risulta più che evidente l’utilizzo criminale dei civili azeri come scudo per i lanciarazzi da parte delle stesse autorità azere. Si parla insomma della cosiddetta shield policy che, mi preme ricordare all’ambasciatore designato azero in Italia, è una netta violazione del diritto umanitario internazionale (Protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali - Protocollo Aggiuntivo (I), Ginevra, 8 giugno 1977 - Art. 51).
Inoltre, nella sua intervista alla Nezavisimaya Gazeta del 2 aprile del 1992, il deposto presidente azero Mutalibov affermò: “Gli armeni avevano lasciato un corridoio per la fuga dei civili. Quindi perché avrebbero dovuto aprire il fuoco? Specialmente nell’area intorno ad Agdam, dove, all’epoca c’erano abbastanza forze (azere) per aiutare i civili”. Nei dintorni di Agdam (a molti chilometri di distanza dal teatro delle operazioni) erano dislocate le formazioni paramilitari del Fronte Popolare Azero. Sempre Mutalibov, in un’intervista alla rivista “Novoye Vremia” del 6 marzo del 2001 ribadisce: “Era ovvio che qualcuno aveva organizzato il massacro per cambiare il potere in Azerbaijan”, alludendo così al Fronte Popolare Azero le cui truppe erano di stanza nei pressi di Khojaly, quelle stesse truppe che, alcuni giorni dopo i fatti di Khojaly, organizzarono il golpe a Baku. E dichiarazioni e valutazioni di questo tipo sugli eventi di Khojaly sono state fatte da diverse personalità azere.
A tal proposito vorrei far presente all’autore dell’articolo che i giornalisti azeri e gli attivisti per i diritti umani che hanno contestato la versione del governo azero sui fatti di Khojaly sono stati arrestati o uccisi in Azerbaigian. Solo alcuni nomi: Chingiz Mustafayev cameraman, ucciso in circostanze misteriose, Eynulla Fatullayev giornalista, condannato con diversi capi d’accusa, tra cui alto tradimento, per il suo reportage su Khojaly, Elmar Huseynov giornalista, morto in circostanze poco chiare. Tutto ciò rende le responsabilità criminali azere ancora più evidenti.
Desidero sottolineare inoltre che la citazione dall’intervista di Thomas De Waal al presidente armeno Serzh Sargsyan, all’epoca dei fatti di Khojaly ministro della Difesa del Nagorno-Karabakh, è decisamente manipolata perché estrapolata dal suo contesto originale. Infatti, nella stessa intervista del 15 dicembre del 2000, al paragrafo precedente le parole del Presidente Sargsyan assumono un significato del tutto diverso: “It is too much exaggerated, too much. Azerbaijanis needed to have a case tantamount to Sumgait. But you can’t compare these two cases. Yes, in reality there was a civilian population in Khojaly. But together with civilians there were also soldiers. And when a shell/missile flies through the air it does not distinguish between civilian and soldier, it has no eyes. If the civilian population remains behind despite the fact that there was a good opportunity to leave, then it means that the population is also involved in hostilities (azeri shield policy). And the corridor was left for civilian population not for the purpose to shoot them somewhere, shooting was possible in Khojaly, and not on the outskirts of Agdam”.
L’ambasciatore designato della Repubblica d’Azerbaijan non può negare inoltre che l’Azerbaijan si rifiuta, contrariamente all’Armenia e al Nagorno-Karabakh, di negoziare direttamente con il governo democraticamente eletto del Nagorno-Karabakh e rimanda al mittente le proposte Osce sul ritiro dei cecchini dalla linea di contatto e sulla messa a punto di un meccanismo congiunto per indagini sulle violazioni del regime di tregua. L’Armenia, dal canto suo, è determinata - a differenza del governo azero - ad arrivare a una soluzione negoziata del conflitto, soluzione che escluda alla base l’utilizzo dello strumento militare per la composizione finale. Posizione questa condivisa dalla comunità internazionale e richiesta alle parti in conflitto.
La posizione del governo armeno è allineata con le dichiarazioni dei capi di stato dei paesi co-presidenti del Gruppo di Minsk (Usa, Russia e Francia) adottate ai vertici G8 dell’Aquila, Muskoka, Deauville, Enniskillen e del G20 di Los Cabos nell’accettare come base negoziale i principi di Madrid che richiedono compromessi alle parti ma sintetizzano anche le aspirazioni e le aspettative della popolazione civile armena e azera. Forse, dopo tante distruzioni e vittime civili di una guerra imposta e persa dall’Azerbaijan, il governo azero farebbe meglio a impegnarsi seriamente nel processo di pace mediato dall’Osce e supportato dalla comunità internazionale, senza accusare i mediatori di insuccessi e di una situazione di immobilità.
Mi chiedo perciò chi si stia impegnando in “una campagna di sabotaggio” e chi stia invece usando “qualsiasi strumento provocatorio” per distogliere l’attenzione da quello che oggi più conta: una risoluzione pacifica del conflitto in Nagorno-Karabakh.
Sargis Ghazaryan - Ambasciatore straordinario e plenipotenziario della Repubblica d’Armenia in Italia
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