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21. Ott. 2020 - Alice a il ilbro di _ Una pietra sul cuore e il libro - Giovanni Riccardi .
Il genocidio degli armeni


Alice Tachdjian (a cura di), Pietre sul cuore. Diario di Varvar, una bambina scampata al genocidio degli armeni, Sperling & Kupfer, Milano 2003, 200 pp., euro 15,00
In un cestino della carta straccia, Alice Tachdjian trova, dopo la morte della madre, Varvar, nel 1990, tre manoscritti redatti a più riprese tra il 1974 e il 1989. È il diario terribile e poetico di un’esistenza individuale, che s’inserisce, come in un grande romanzo storico, nel quadro della tragica vicenda del popolo armeno. Varvar nasce nel 1909 a Ulas, uno dei villaggi armeni che subiranno i massacri e la deportazione del 1915 ad opera dei turchi. Il “grande male” (metz yeghérn), il genocidio dimenticato dalla storia, e tuttora negato dal governo di Ankara, è raccontato attraverso il filtro dei ricordi, gli occhi di una bambina che non riesce a dimenticare. L’effetto narrativo è sconvolgente. Un libro scritto senza pensare alla pubblicazione: il resoconto sobrio, essenziale, quasi cronachistico di eventi che solo oggi si rendono presenti alla memoria storica collettiva.
In Italia, negli ultimi vent’anni, sono stati fatti molti passi in avanti per diffondere la conoscenza e sostenere il riconoscimento del genocidio del popolo armeno, fino al pronunciamento ufficiale del Parlamento italiano, avvenuto nel 2000. Ogni anno nel nostro Paese si pubblicano sei o sette titoli di un certo rilievo sulla questione; oltre alle case editrici Guerini, che cura una vera e propria collana dedicata alla questione armena, e Mimesis, che pubblica sull’argomento studi storico-scientifici, ora, per la prima volta, una casa editrice “commerciale”, Sperling & Kupfer, ha il merito di proporre al grande pubblico questo libro, che si legge tutto d’un fiato, che lascia stupiti per la limpidezza della prosa, la lucidità del racconto, e che ha il pregio artistico di essere stato scritto senza alcun artificio: la storia di una donna, straziata dalla propria vicenda umana, in cui prevale comunque, in ogni circostanza, un tenace e drammatico desiderio di vivere e di ricordare. Vengono alla mente, nel leggere queste pagine, le parole del poeta-soldato Ungaretti di fronte all’immane catastrofe della guerra: «Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita».L’Armenia, la terra da cui nascono due dei
quattro fiumi menzionati nella Genesi, è rappresentata con gli occhi di una bambina, che ne è stata strappata via a forza: ed ha i colori dell’Eden, il Paradiso perduto. Quest’immagine tersa e serena dura lo spazio di un capitolo. Immediatamente dopo, il diario ci trascina nell’orrore della tragedia di un popolo che fu quasi del tutto annientato nei primi mesi successivi allo scoppio della Grande Guerra, per opera del governo ottomano, sotto la spinta ideologica dei Giovani Turchi. Gli occhi di questa bimba descrivono, passo dopo passo, lo svolgersi degli eventi: l’eco degli spari durante la fucilazione degli uomini del villaggio, in cui morirà il padre di Varvar; la successiva deportazione di donne, vecchi e bambini nel deserto della Siria, destinati a morire di fame e di stenti, a subire le violenze delle tribù curde e dei poliziotti turchi; la separazione di Varvar dalla madre, che resterà il ricordo più doloroso e indelebile per questa creatura di sei anni. Fuggendo in braccio a una zia, Varvar si salverà, come tanti bambini armeni, per l’intervento di un conoscente turco, che la prenderà come sguattera al proprio servizio, fino alla fine della guerra, fino alla rivoluzione che porterà al potere Kemal Pascià, il padre della “moderna” Turchia, sotto il quale continuerà la persecuzione degli armeni sopravvissuti allo sterminio del 1915-1916. Suo fu il divieto tassativo alle famiglie turche di tenere in casa bambini armeni, anche se forzosamente islamizzati, come era capitato a Varvar, che pure conservava tenacemente, nel suo cuore, la fede cristiana dei suoi padri: «Ripetevo in armeno, ogni notte, prima di addormentarmi: “Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, fa’ che io ritrovi mia madre…”».
Molti di questi piccoli, compresa la protagonista della storia, verranno così “scaricati”, dopo il 1920, in orfanotrofi gestiti in gran parte da missionari protestanti. E in uno di questi orfanotrofi Varvar comincerà a riacquistare la propria dignità, nonostante il clima “militaresco”, la dieta quasi da fame, la disciplina asfissiante. Imparerà a leggere e a scrivere, sperimenterà le prime amicizie, conoscerà per la prima volta, attraverso una fessura che permetteva di vedere la parte maschile del brefotrofio, il volto del suo futuro sposo, Assadour, che avrebbe rincontrato fortuitamente molti anni dopo, a Parigi.
Quando Kemal caccerà gli stranieri dal Paese, anche i missionari e gli orfani armeni loro affidati dovranno partire per sempre. Varvar descrive le tappe di un viaggio che per questi piccoli apolidi riserverà ancora amare sorprese, fino al definitivo approdo in Francia.
Anche per gli storici della questione armena il diario di Varvar contiene particolari interessanti, finora poco evidenziati. L’accoglienza che la Grecia, a partire dal 1921, riserverà ai sopravvissuti armeni, si rivela una prosecuzione della tragedia: delle trenta compagne del brefotrofio, ventitré moriranno di stenti sulla spiaggia di Corinto senza ricevere alcuna assistenza. Poi la partenza per la Francia, dove gli armeni, sia pure accolti, subiranno nuove umiliazioni: la diffidenza, se non l’aperta ostilità della gente, lo sfruttamento sul lavoro, la povertà schiacciante, i sacrifici sostenuti per far studiare i figli. Fino all’ultima, dolorosa constatazione: quella memoria che per Varvar è attaccamento alla vita, garanzia della propria identità, per i suoi figli, attratti dal modello di vita francese, diventa invece un fardello ingombrante, duro da sopportare.
Nonostante la lunga catena di sofferenze, Varvar descrive la vicenda della sua vita con una dolcezza disarmante, sostenuta da una prosa tragicamente serena, che appare, ed è quasi un miracolo, priva di rancore. Questa donna, al termine della sua esistenza, nonostante tutto, continua a riconoscere nella terribile sorte di un intero popolo il segno quasi impercettibile, paradossale, ma concreto, della presenza di Dio: «Ma perché Dio ha voluto che noi bambini sopravvivessimo? Perché siamo stati risparmiati dalla furia omicida? Forse noi fummo dispersi per il mondo come una manciata di semi in cerca di terra fertile per testimoniare, ricordare e indicare ai nostri figli la via impervia e dolorosa del perdono».
Giovanni Ricciardi

http://www.30giorni.it/in_breve_id_numero_46_id_arg_32141_l1.htm


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