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21. Ott. 2020 - Alice Tachdjian, a cura di, Pietre sul cuore. Diario di Varvar, Stefania Garna
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© DEP ISSN 1824 - 4483 Alice Tachdjian, a cura di, Pietre sul cuore. Diario di Varvar, una bambina scampata al genocidio degli Armeni, Sperling & Kupfer, Milano 2003, p.XII + 198. Varvar l’armena, la Scintillante, morta di tutte le morti del mondo La figlia Alice ci consegna la sua storia, scritta hokiov - con l’anima. In questi anni di indubbia rinascita armena in Italia - contrassegnati da un notevole coraggio culturale di piccole e grandi case editrici, che ci offrono una nuova abbondanza di studi e di traduzioni - spicca il Diario di Varvar, uscito per i caratteri della Sperling e Kupfer di Milano nel gennaio scorso. Marsiglia, Alfortville-Parigi ... l’indice è una sorta di rosario dal cuore della diaspora, la Francia, dove gli Armeni, scampati ai massacri, negli anni Venti arrivano da Costantinopoli, dalla Grecia e in generale da tutto il Medio Oriente. Ulas, Deliktas, Çamurlu, Sivas, ovvero le tappe del Metz Yeghérn armeno declinate in una delle purtroppo numerose e comunque mai scontate versioni che l’immane tragedia ha prodotto: l’infanzia annullata di una bimba di sei anni, che perde per sempre, in pochi giorni, in quel luglio del 1915, tutto il suo microcosmo di legami di sangue e di amore. I genitori e i fratelli, i compagni di gioco, gli animali e la natura della propria terra sono inghiottiti dal primo genocidio del XX secolo, senza averne ancora coscienza, senza potervi porre alcun indugio, alcun rimedio. “Aksor!... gridavano le donne”, cioè deportazione. “Questa parola - Varvar ci racconta - suscitò in mia madre un urlo di disperazione. Lei sapeva”. Non siamo a digiuno di memorie del genocidio armeno in cui proprio i bambini testimoniano come i loro occhi siano stati offesi per primi da manifestazioni impressionanti di malvagità umana e ci raccontano - gli adulti che poi sono diventati - come, con il sigillo di queste ferite (Varvar dice emblematicamente pietre), abbiano cercato una via del ritorno, la comprensione di un evento che fatica a farsi racconto e che pure ha urgenza di comunicazione. Khodorciur di Raffaele Gianighian, indimenticabile diario di “un pellegrino alla ricerca della sua patria”, o “le storie di nonno Harutiun” Kasangian in un tempo più recente, infine in forma di romanzo per ragazzi l’omaggio di David Kherdian alla madre Veron; ma qui vengono toccate corde nuove, per tanti versi inaspettate: questa donna ci aiuta a gettare luce su alcuni passaggi squisitamente antropologici della diaspora armena, cioè di una cultura orientale che è, in questo frangente storico, costretta ad immergersi in una occidentale; a ciò si aggiunge la sua testimonianza ora tenera ora allucinata della lunga marcia “lontano da casa”, delle violenze inaudite e anche di quel “viaggio della speranza” che alcune migliaia di bambini e di adolescenti armeni non islamizzati intraprendono per sfuggire all’ondata kemalista seguita al Trattato di Losanna del 1923 - viaggio per mare verso l’Occidente che si trasforma in una vera e propria strage di innocenti abbandonati per alcuni mesi sulle spiagge greche, senza alcun sostegno sotto il sole rovente. E su tutto s’impone il momento in cui la madre Heghinè, per salvare la piccola, con una bugia la separa da sé: “Ricordo che, prima di partire, mia madre mi si avvicinò e, senza aprir bocca, mi strinse forte e pianse convulsamente, fissandomi a lungo negli occhi, come se non mi avesse mai vista prima di allora”.
Stefania Garna DEP n.2 / 2005190La curatrice fedele e instancabile del Diario è la figlia Alice Tachdjian - Alys, per la verità, come il nome del fiume che attraversa il paese natale della madre; quasi per caso recupera nel 1990, immediatamente dopo la scomparsa, i suoi quaderni finiti nel cestino della carta straccia del pensionato di cui era ospite, fitti fitti di memorie e di poesie composte negli ultimi quindici anni di vita. Proprio a chi scrive in questo momento Alice, alcuni anni fa, raccontò la particolare veste di questi diari redatti con inchiostro di diversi colori e in due diverse lingue, quasi a inscriverli in un simbolismo chiaro e profondo, senza mezze misure, appreso dalle radici più remote della propria amata cultura: il blu per la prima parte dedicata all’infanzia, consegnata però alla lingua di adozione, il francese; il rosso e il nero, invece, per la lingua materna, con la quale garantire forma e suono alla parte più drammatica del suo racconto. Il fatto ci pone radicali interrogativi sulle modalità e, più in generale, sulla necessità di integrazione e/o assimilazione delle minoranze etniche, qualora poi il loro statuto giuridico-civile sia quello particolarmente debole o precario dell’apolide, come nel caso armeno in questione; interrogativi che dovrebbero aprire la strada ad un ulteriore studio comparativo di queste esperienze. Limitandoci al presente testo, ad ogni modo, colpisce persino un profano questa scelta, anche perché Varvar ha modo di descrivere spesso e con raro nitore il suo rapporto estremamente conflittuale con il francese, che nonostante la giovane età (Varvar giunge a Marsiglia nella primavera del 1926) si rifiuta intimamente di apprendere, accettando per anni una sorta di umiliante balbuzie, pur di continuare a nutrire la segreta speranza di rientrare nella terra dei padri. Solo dopo che i figli hanno costituito le loro famiglie, ahimè miste, la donna decide di apprenderlo bene, frequentando un corso serale, e ce lo racconta nel terzultimo capitolo significativamente intitolato Assimilazione: è un momento drammatico di verifica delle proprie radici in terra adottiva. In altre parole risulta a suo avviso fallita l’educazione che assieme al marito Assadour aveva amorevolmente trasmesso ai figli e che non voleva esaurirsi nella loro istruzione, anche se completata fino agli studi universitari. Infatti, una volta garantita con pesanti sacrifici la sopravvivenza fisica, particolarmente faticosa nel primo dopoguerra e durante l’occupazione nazista, la salvaguardia della propria esclusiva identità etnica è il fondamentale scopo della loro esistenza e si attua attraverso le pratiche domestiche tradizionali, il cibo esclusivamente armeno, i racconti serali della tragedia del proprio popolo, fatto salvo inoltre che in casa si parla solo l’armeno. Per questa convinzione Varvar e Assadour, dopo la seconda guerra mondiale, si iscrivono tra i primi al convoglio di rimpatriati per l’Armenia Sovietica, seguendo d’istinto il progetto patrocinato dall’URSS (pure sostenuto da tutte le organizzazioni politiche della Diaspora e anche dalla Chiesa), che in realtà stava strumentalizzando abilmente le rivendicazioni patriottiche degli Armeni stessi “per esercitare pressioni sulla Turchia in modo da ottenere la revisione dello Statuto degli Stretti e, forse, anche il ripristino dei confini dell’Impero russo antecedenti a Brest-Litovsk”, come viene esaminato da Marc Ferro e Claire Muradian nel loro contributo alla Storia degli Armeni (Guerini & Associati, 2002). Fortunatamente i coniugi Tachdjian non cadono in questa trappola, che solo dal 1946 al 1949 conduce più di 100.000 Armeni nella madrepatria in vista di quell’”esorcismo del
Stefania Garna DEP n.2 / 2005191cataclisma del genocidio e dell’esilio forzato” che in realtà non avviene, ma produce altra emarginazione e porta al collasso la piccola repubblica. Resta comunque il fatto che i matrimoni misti di Njteh e di Alys, la trasmissione della lingua materna paradossalmente mancata da parte di Jirayr sono vissuti da Varvar alla pari di una ferita aperta tanto quanto la pena e il senso di colpa di essere sopravvissuti al massacro, alla pari di un gravissimo tradimento, anche se “inevitabile”, come è pronta a correggere lei stessa nel diario; comprensibile d’altronde nel quadro più generale della diaspora armena in Francia, in cui la tendenza degli stessi primi anni Venti è quella di costituire gruppi di “connazionali” molto aggregati, nelle periferie di quelle aree industriali ricettive che costituiscono ancor oggi i nuclei storici delle comunità: Marsiglia, Parigi e Lione. Nelle piccole e sovraffollate case di quegli anni, le famiglie, se il destino è stato particolarmente generoso, in parte si ricompongono e infaticabili fanno fronte al disastro economico e psicologico a cui il genocidio li ha costretti. Varvar si racconta - in questo inaspettato e comunque doloroso ricostituire una famiglia tramite la sorella superstite Iersapeth - lacerata tra il “senso di precarietà e di discontinuità dei luoghi” rispetto a quelli nativi e il clic-clac della macchina da cucire, presso la quale lavora per ore e ore, anche di notte, e presso la quale ai nipotini racconta “una storiella, un canto, qualcosa di insolito e di curioso, in armeno”. Non s’improvvisa in cantastorie, ma fa veramente rivivere attraverso di sé, nella lingua materna, ciò che di più tenero e meraviglioso è rimasto della sua infanzia, dai racconti di nonna Caterina - “paesi lontani e magici” che tengono i bambini con gli occhi spalancati -, alla poesia imparata nel brefotrofio di Sivas, la prima che i suoi figli impareranno, e la preferita a giudicare anche dalla memoria di ferro con cui viene ricomposta: Io sono un bambino armeno Di razza armena. Parlo la lingua di Hayg Aram. Non ho trono, né corona d’oro, né diamanti. Ma ricco è il mio cuore. Questo testo compare più di una volta nel diario, sempre a definire una funzione di sigillo/suggello attribuita alla lingua e più in generale alla figura femminile, proprio perché la lingua e la scrittura sono per eccellenza i luoghi della memoria e la donna, intrisa del suo ruolo tradizionale più che mai, lavora e vive in casa, costituisce lei stessa la casa. Ma oltre il bosco di Clamart che offre frutti ed erbe per integrare la magra dieta della famigliola, oltre il piattino con il dolce halva ancora fragrante che la nipote Anna porta da Belleville in un lungo e scomodo tragitto in metrò per condividerlo con la cara zia, nel complesso resoconto della diaspora di Varvar spicca l’ospitalità, senza alcuna remora anche in tempi difficili, nei confronti delle ex-maestre dell’Istituto di Sivas che ormai vivono in Francia grazie all’affettuosa carità delle protette di un tempo.
Stefania Garna DEP n.2 / 2005192Questo luogo, tanto quanto il tempo che esso segna, è il nodo fondamentale del Diario. “Da allora e per tutto il corso della mia vita, per quanto la cosa facesse sorridere i miei figli, ho sempre sognato il brefotrofio. Era quasi un carcere, si pativano alternativamente il caldo e il freddo, si mangiava poco e bisognava obbedire e tacere; tuttavia, sinceramente, il mio cuore è rimasto laggiù, dove grazie agli insegnanti armeni ho riacquistato la mia identità e la mia dignità di fronte alla vita che le sventure avevano indebolito”, dichiara Varvar. Qualcosa di sacro e insostituibile è evidente nel dare/ricevere asilo che qui si vive; “le teste rasate, lucide” di queste orfane, “pulite come appena nate, ansiose di iniziare a scrivere, seppur stentatamente, le prime pagine di una nuova vita” non faticano a trovare anche la nostra condivisione, mentre ci colpiscono grazie all’asciuttezza e lucidità di analisi che caratterizza la scrittura del testo, privo del tutto di dialoghi. Ci meravigliano le “donne dolci e materne” - “benedette” le chiama Varvar - “che le hanno pulite e rasate con mani pietose”; come le maestre missionarie che con felice intuizione pedagogica spronano le piccole orfane a dar voce alle “orrende visioni che ci avevano colpite durante la deportazione”, ad esorcizzare “le urla e i pianti che segnavano le nostre notti”. Marò, Zaruhi, Armineh “dagli occhi verdi” e tante altre pazientemente ci vengono restituite, ad una ad una nel loro stranito addio alla semplice felicità dell’infanzia, tramite il pietoso gesto dell’ascolto che tutte praticano nel tentativo necessario di una purificazione collettiva: “Tutte, potrei elencarle tutte. Erano le mie care, amatissime, tenerissime sorelle di sventura”. “Morte di tutte le morti del mondo”, come ebbe modo di testimoniare Armin Th. Wegner. Offre un’ulteriore chiave di lettura il notevole lavoro di ritessitura che Alice compie e spiega nel Prologo: al presente testo, infatti, concorrono anche il ricco legame epistolare con la madre e i suoi ricordi personali del tempo in cui ancora viveva con i genitori in Francia; s’intrecciano armoniosamente e prendono reciproco vigore tanti tasselli di questa vicenda: dalla nonna Caterina che “dolcemente riaffiora” nella vecchiaia di Varvar, mentre monda sotto la quercia le lenticchie dai sassi, come in una poesia del poeta armeno moderno Zahrat; allo sguardo di Varvar nella sua camera di bambina che s’incanta tra i disegni e i colori del tappeto appeso al muro, sguardo che trova un’intima corrispondenza in quello della figlia, come ci racconta in Hayastan (Edizioni del girasole, 1998), il suo diario di viaggio nella terra dei padri, dove incontra la cugina Vartanush, l’unica superstite della famiglia in Armenia. Convince, infine, la scelta di accostare, nel ricco dossier fotografico del volume, ai volti delle persone amate nel trascorrere del tempo, una pagina del piccolo dizionario franco-armeno usato da Varvar negli anni della diaspora; l’insistenza di queste formule pratiche sembra dar vita ad una sorta di spaesante ecolalia e contemporaneamente chiama ad essere anche noi custodi di questa ventura-sventura, tanto quanto Varvar sempre ricorda le stelle a grappoli nel cielo scintillante della sua prima infanzia, cosi vicine agli occhi: ... Je m’appelle..., que voulez-vous ?, je besoin de vous parler, j’ai quelque chose a vous dire, parlez vous français ?, ... J’ai une prière à vous faire ... Stefania Garna
https://www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/dipartimenti/DSLCC/documenti/DEP/numeri/n2/16-Pietre_sul_cuore.pdf
V.M. Vartanian
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