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03.Lugl. 2022: 24 GIUGNO 2018 DIBATTITO CULTURALE LA VERA STORIA DEGLI ZINGARI Herman Vahramian
24 GIUGNO 2018
DIBATTITO CULTURALE
LA VERA STORIA DEGLI ZINGARI
Herman Vahramian:
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24 GIUGNO 2018
DIBATTITO CULTURALE
LA VERA STORIA DEGLI ZINGARI
Herman Vahramian
La dea Anahita (in lingua pahlavide, l’antica lingua persiana), Nahid (in persiano� moderno e contemporaneo) e Anahid (in� armeno) era adorata particolarmente dalle� giovani donne e dalle ragazze di religione� zoroastriana (persiane, armene, assire, caldee, azere ecc.), in quanto custode delle� acque, della fertilità e della vita. Era la dea �della verità e della giustizia, talvolta anche della castità, e il suo culto si diffuse quasi come una religione su tutto il territorio caucasico, iraniano e dell’Asia Minore, ovvero Anatolia (in greco Anatolì, Oriente), dove disponeva di numerosi santuari. Santuari ricchissimi – visto che erano venerati non soltanto dai re e dalla classe dirigente iraniana e/o armena, ma anche dai popoli limitrofi, fino al lontano Rajastan, in India.
La pianura di Teheran era dedicata alla dea e comprendeva anche l’antica città di Rey (Raga o Rages in latino, Rhagae in greco), fondata nel X secolo a.C. e posta sulla Via della Seta. Di questi santuari oggi rimangono scarse tracce. In Iran, a Kangavar, villaggio situato nel lontano Kermanscià, nel profondo sud del Paese, sopravvive un solo tempio (nella foto) che come struttura architettonica somiglia in modo straordinario ai grandi templi greco-romani conosciuti. In Iran questi templi, assieme a quelli zoroastriani, sono stati rasi al suolo – dapprima, con grande accanimento, da Alessandro Magno, successivamente dagli arabi islamici sunniti (nell’VIII secolo) e poi dal mongolo Tamerlano, detto Timur lo Zoppo, nel 1220.
L’Islam sciita, che perseguiterà gli zoroastriani lungo tutta la storia iraniana, ha comunque dimostrato un certo rispetto per i templi della dea Anahita. A Yazd – città situata nel centro dell’Iran, che fu un importante centro zoroastriano e oggi è abitata da qualche “sopravvissuto” – ci sono i ruderi di piccoli templi quadrati dedicati a Bi-bì Sciahr-banù o Shahr-zad, la “Signora della città”, ovvero la Regina Anahita, e accanto a vari altri ruderi anche un tempio dedicato a Vahram (il Vittorioso, l’indistruttibile). Sul modello della dea Anahita, l’Islam sciita a sua volta dedicò varie città alle figure femminili sante o santificate: la città santa di Ghom (nell’Iran centrale) alla sciita Santa Masumè; Damasco alla Santa musulmana sunnita Zeynab; persino la Medina, che si trova in Arabia, nel cuore dell’Islam sunnita, a Donna Fatemè, figlia del profeta Mohammad. Anche gli armeni, dopo averla intitolata in un primo tempo ad Aramazd (ossia lo zoroastriano Ahura-Mazda), consacrarono alla dea la città di Anì (“Città di una e mille chiese”, oggi in Turchia).

Rey, una città sfortunata
La sfortuna si accanì contro la città di Rey, sacra a Malek (“Regina del Paese Anahita”), posta 50 chilometri a est dell’attuale Teheran e fondata nel IX secolo a.C.: Alessandro Magno la diede alle fiamme con tutti i codici che vi si trovavano; assassinò tutti i Mogh (“Mago”, Magos in greco, ovverosia componente del clero zoroastriano), distrusse i templi e l’intera città. Secondo lo storico greco Strabone un pesante terremoto completò l’opera. Più tardi, nel 312-280 a.C., il greco Seleucus Nikater ricostruì la città e la ribattezzò con il nome di Europos (Europa), erigendo nelle vicinanze altri tre centri. Uno lo chiamò Apamea in ricordo di sua madre. Gli altri due furono distrutti dagli arabi nell’VIII secolo e successivamente dai mongoli (XIII secolo), e oggi di essi non rimane memoria.
Al pari delle sue “sorelle”, la città di Rey cadrà dapprima sotto giogo arabo e poi sotto quello del mongolo Tamerlano, che invase l’Iran nel Trecento (1219-1223). I sopravvissuti alla distruzione della multietnica Rey – c’erano gli sciiti con le loro filiazioni, quasi una ventina, i musulmani sunniti con due derivazioni, gli ebrei, gli armeni con due diramazioni (chiesa armena e chiesa armena cattolica), i georgiani (idem come gli armeni); c’erano i lori, gli zoroastriani di varie risme, i bakhtiyari ecc. – si riversarono in due villaggi: Teheran (oggi capitale dell’Iran, conta all’incirca 12 milioni di abitanti) e Mehran (“Città amorosa”, oggi cancellata dalle mappe). La città di Rey aveva quasi 450mila abitanti (un’enormità per quei tempi).
Gli ebrei, i persiani-zingari e gli armeni presero la via verso nord – dapprima verso il Caucaso, l’Asia Minore e i dintorni del Mar Nero e poi verso i Balcani e l’Europa, portando con sé una quantità di mestieri “universalmente validi”, mestieri cioè che, nel caso di emigrazione e cambio del Paese, non sono soggetti a perdere la loro validità. Ad esempio, se un avvocato cambiasse Paese, dovrebbe iniziare tutto daccapo e per prima cosa apprendere una nuova lingua; non così un dentista. I persiani transumanti, che comunque erano sedentari, divennero zingari, ovvero “girovaghi” e diffusero in tutto il mondo la musica; gli ebrei fecero lo stesso con la finanza e crearono due nuovi Stati ebraici nel Nord: khazero sulla litorale del Mar Caspio e ashkenazita (da non confondere con gli ashkenaziti europei) sulle rive del Mar Nero e del Mar d’Azov; gli armeni si concentrarono sulla medicina e sull’architettura e così via. Nei secoli successivi e nel XIX-XX secolo tutte e tre queste etnie, com’è noto, vennero pesantemente perseguitate.
Gli zingari e la musica, mestiere per emigranti
Fin dai tempi più remoti gli zingari, di razza indoeuropea, si occupavano della musica e del ballo. Secondo una mitologia diffusa fra tutti i popoli mediorientali e particolarmente nell’ambito dello zoroastrismo, il mondo iniziò per volontà divina con un big-bang musicale. E la Terra ha bisogno di ricordare costantemente l’attimo della propria creazione. Ogni giorno occorre battere coi tacchi per terra e suonare e cantare qualcosa. Così nacquero il canto e la danza e la musica, sia in ambito religioso sia in ambito popolare. Lo zoroastrismo glorificava il creatore facendo ballare in tondo attorno al fuoco sacro i Mogh, che procedevano lungo la figura di una swastica (segno di croce ruotante). Un simbolo che si diffuse sia tra i cristiani d’Oriente sia tra i monaci bizantini, fino ai sufi dell’Islam sciita e sunnita. Oggi come oggi, ma ormai in modo del tutto alienato – spesso per mero diletto dei turisti – i sufi musulmani sunniti di Turchia ballano e danzano ancora in identico modo.

La swastica con le braccia uncinate verso sinistra, in senso antiorario, è simbolo del sole e della vita; se invece le braccia sono orientate in senso orario di rotazione (su-wastika), è simbolo della morte e della distruzione.
Gli zingari persiani-zoroastriani aderirono alla figura della dea Anahita, che si presentava, sempre nell’ambito dello zoroastrismo, sintetizzandosi a mo’ di nuova religione. Portarono in giro come parola di Dio i canti e la musica in tutto il Medio Oriente – sempre ballando su un tracciato a forma di svastica –, giungendo fino in Spagna e anche oltre. Si spostarono senza fatica poiché seppero tramutarsi in transumanti, occupandosi prevalentemente dell’allevamento di mandrie di cavalli per l’esercito persiano e altri eserciti dell’area.
I cavalli a cui si dedicavano erano in maggior parte cavalli armeni, originari del Gharabagh (ghara, in turco, “nero”; bagh, in persiano, “giardino”; oggi in russo Nagorno-Karabak), dal mantello giallo oro, nero, fulvo o bianco, provvisti della particolarità che l’altitudine di quelle montagne non procurava loro nessuna vertigine, evitando così cadute rovinose per il cavallo e il cavaliere. In effetti lo zoroastrismo curò in modo spasmodico l’allevamento e l’addestramento dei cavalli, vietando tassativamente qualunque utilizzo a scopo alimentare degli animali da soma (asini, cammelli, muli, cavalli e addirittura vacche e buoi) e promuovendone altresì la tradizione – che resiste ancor oggi in molti Paesi mediorientali, persino nel seno di altre religioni come il cristianesimo orientale, l’induismo, l’islam ecc. Gli Sciti (popolazioni storiche della Siberia del sud e del Caspio settentrionale) per le loro scorribande nelle steppe poterono disporre di cavalli persiani specializzati nel fiutare la neve scovando l’erba fresca nascosta sotto la crosta di ghiaccio.
Storia di una persecuzione millenaria
Nel XIII secolo gli zingari persiani rifiutarono di vendere i propri cavalli a Tamerlano e ad altri Khan mongoli, rimanendo fedeli all’impero persiano e ai popoli dell’area. I cavalli mongoli si rivelarono del tutto inadatti ad attraversare il Caucaso, che costituisce un muro fortificato naturale di difesa, com’era già successo con gli arabi, che si erano vendicati radendo al suolo tutta la piana armena. In tal modo fu impedita loro la penetrazione verso i Balcani e l’Europa. Lo stesso vollero fare i mongoli, ma i monti caucasici per i loro cavalli erano insuperabili e per penetrare in Russia e in Europa furono costretti a trovare una via settentrionale costeggiando il Mar Caspio, perseguitando gli zingari ogni volta che se ne presentò l’occasione in quanto distruttori del progetto – nato sulle orme di Alessandro Magno – di creare un impero mongolo d’Oriente e Occidente (ovvero Eurasia: un impero che si sviluppava tra due oceani – dall’Atlantico al Pacifico – e che avrebbe dovuto comprendere tre continenti, l’Europa, l’Asia centrale e periferica e la Cina). Più avanti gli zingari transumanti della città di Rey e dintorni si convertirono quasi tutti al cristianesimo e si fecero ribattezzare rom: termine arabo che significa “greci e/o romani”, ovvero “gente d’Occidente”.
Le fila di costoro vennero irrobustite con l’aggiunta dei koulì persiani – cioè “gente con averi sulle spalle”, che storicamente erano dei vagabondi che rigettavano la proprietà privata e vivevano in tende allestite fuori dalle mura delle città. I koulì giravano per il Paese e diffondevano la danza, esordendo con le braccia alzate, in segno di glorificazione di Ahura-Mazda; rigettavano le altre religioni rivelate, poiché contrarie alla danza e alla musica, come l’ebraismo e il cristianesimo orientale e l’islam sciita. Provvedevano ad accompagnare con canti e musiche le feste e i matrimoni, portandosi dietro i loro strumenti musicali un po’ dovunque, organizzando spettacoli teatrali – per certi versi paragonabili a quelli circensi –, allettando gli spettatori con la lettura della mano e del futuro. Erano specializzati nella fabbricazione di strumenti musicali a fiato e nella lavorazione del rame per usi domestici, per confezionare talismani di buon augurio matrimoniale, salute o lunga vita. Si spinsero verso il Mar Caspio e il Mar Nero. A costoro si unirono i cantautori del Caucaso coi loro tar (strumento simile alla chitarra), i cantautori-poeti detti Asciugh (in arabo, “innamorati” o “pazzi di Dio”; ashik in turco; asciugh in armeno), poliglotti, colti e provenienti da tre villaggi situati nel cuore dell’Armenia orientale. Vagabondi – simili ai dervisci ma esclusivamente laici – diffondevano in ogni dove, insieme agli zingari e ai koulì, la filosofia, la storia, la po sia e l’amore, dapprima verso il Caucaso, poi verso l’Asia Minore, seguendo le rotte balcaniche fino all’Europa settentrionale, percorrendo anche la rotta verso ovest, in direzione della Francia del sud fino alla Spagna e al Portogallo, contribuendo alla formazione di vari flamenchi, sempre portando con sé le strutture occorrenti per i loro spettacoli e ogni tipo di strumento musicale. A partire dal 1880 arrivarono addirittura negli Stati Uniti.
Gli europei a loro volta perfezionarono tutta questa eredità ricevuta dall’Oriente, e dal Rinascimento svilupparono ed elaborarono proprie musiche, canti e balli attraverso la diffusione seguita a quella lontana emigrazione dalla città di Rey e dintorni. Se non ci fossero stati questi zingari indoeuropei, oggi ad esempio forse non ci sarebbe stato un Bach, un Liszt, uno Hummel, un Brahms, un Ciajkowskij, un Rakhmaninov, un Bela Bartok, un Frédéric Chopin, un Wagner. E per quanto riguarda i secoli successivi Adolf Hitler – come ringraziamento per non essersi trovato i mongoli come vicini di casa – nel 1944 organizzò una “Notte Tzigana”, massacrandoli a più non posso e bruciandoli nei forni crematori di Dachau, Mauthausen, Auschwitz, Birkenau (quest’ultimo era un campo speciale riservato agli zingari). Il numero esatto non si sa, ma qualcuno mormora: da due a quattro milioni di persone. Lenin e Stalin, da parte loro, ne mandarono parecchi a spaccare le pietre nei gulag sovietici (si parla di circa di un milione e mezzo). Ugualmente si ignora a tutt’oggi il numero esatto dei giovani e dei bambini che finirono nelle mani del dottor Joseph Mengele come materia prima per i suoi “esperimenti”.
Anche la “civilissima Svizzera” cercò di sedentarizzare gli zingari, togliendo loro i figli per annientare in modo soft la discendenza e la prosecuzione della razza e sterilizzando le donne. Ma il buon Dio – ovvero Ahura-Mazda – non donò agli svizzeri né un compositore, né una poesia, né una musica, né un canto o una danza degni di nota. Il modello svizzero ebbe un certo successo: le sterilizzazioni di massa degli zingari Rom, Sinti e Kali ebbero luogo anche in Ungheria, in Cecoslovacchia, in Bulgaria e in Spagna.
Un altro colpo di grazia fu predisposto dalla Nato e dai suoi comprimari europei nella ex Jugoslavia e nei Balcani. Oggi i discendenti di questo popolo sono ridotti alla miseria e si trovano sparsi in vari Paesi europei: suonano nei metrò, praticano l’accattonaggio e talvolta rubacchiano per racimolare qualche soldo (a parte qualcuno, come Goran Bregovic, che può dire di avercela fatta).
D’altronde questa eredità musicale è così immensa che il governo islamico dell’Iran ha creato un istituto di ricerca che già ha pubblicato i primi tre volumi di una Encyclopaedia of the Musical Instruments of Iran a cura di Mohammad-Reza Darvishi, prevista in dieci volumi; ogni volume è di grande formato e di quasi 600 pagine.
Gli zingari di vario ceppo – Rom, Sinti, Kali – di nuova e vecchia emigrazione in Italia si calcola siano circa 150mila. È una minoranza diffusa a macchia di leopardo sul territorio. Ma allora rappresenta un problema marginale. Si è voluto che ci fosse il problema, da gestire in modo opportuno e forse funzionale a certa politica di bassa lega, ammassando e facendo vivere questa povera gente in campi che sono un’imitazione degli stalag di sinistra memoria, lasciando da parte l’esperienza eccelsa in questo campo accumulata, ad esempio, da don Virginio Colmegna e dall’Opera Nomadi – a Milano la sede di quest’ultima fu oggetto di vandalismo nel dicembre 2003. Per sedentarizzarli basterebbe restituire loro le case, i terreni e i permessi di accampamento, che ammontano alla cifra quasi incredibile di 10mila unità, confiscati nel periodo fascista e avvolti nel più completo silenzio dopo la Seconda guerra mondiale.
in Vita e Pensiero, 23 giugno 2018

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