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05.Nov.2022- Mons. Levon Arciv. Zekiyan , la Cristianita Armena
La cristianità armena Cenni di storia, di liturgia, di spiritualità Le origini cristiane in Armenia
Sono assai vetuste le origini del Cristianesimo in Armenia. La tradizione le fa risalire agli apostoli Taddeo e Bartolomeo. La critica moderna ha potuto avvisare tracce di predicazione cristiana già a partire dalla seconda metà del II secolo. La storiografia armena moderna, interpretando i dati storici tradizionali, ha collocato la conversione del Regno, avvenuta sotto Trdat (Tiridate) III, nel 301. Questa data, seppure dibattuta tra gli specialisti, è la data ufficialmente accolta dalla Chiesa Armena per le celebrazioni giubilari del XVII centenario dell’evento alla stessa guisa come si celebra la nascita del Salvatore Gesù Cristo, nel mondo cristiano, secondo la recepita datazione tradizionale. In ogni caso – anche nell’ipotesi della datazione infima al 314, proposta da alcuni critici -, alla Nazione armena spetta l’onore e l’onere di primo Regno cristiano al mondo, coi dati e il contesto relativo alla conversione storicamente accertati e soprattutto con una successione dinastica e una tradizione di Stato e di cultura cristiana da allora in poi ininterrotte. La conversione dell’Armenia anticipa di parecchi decenni l’accettazione del Cristianesimo, decisa da Teodosio il Grande, come religione dell’Impero romano nell’ultimo quarto del IV secolo.
Il cristianesimo penetrò in Armenia secondo due direttive concomitanti, dal sud, dalla Siria, e dall’ovest, dalla Cappadocia donde proveniva pure l’Apostolo del Regno, Gregorio l’Illuminatore. Recenti studi svelarono inoltre fortissimi influssi gerosolimitani nella primeva liturgia armena, le cui impronte non furono offuscate nel corso dei secoli. E’ infatti una caratteristica dominante del rito armeno quella di mantenere da una parte tratti assai arcaici e dall’altra di introdurre innovazioni di notevole rilievo, senza che queste ultime abbiano oscurato le prime.



La creazione dell’alfabeto armeno e il suo impatto sull’identità e la cultura armene
Per tutto il IV secolo le funzioni liturgiche in Armenia vennero celebrate in siriaco e in greco, mancando l’armeno di un alfabeto proprio e servendo quindi unicamente da lingua parlata. La situazione cambiò grazie al saggio intuito di un giovane ieromonaco, il santo vardapet Mesrop Mashtots il quale, sostenuto dal lungimirante e pure santo catholicos Sahak e dal sovrano Vramshapuh, portò a compimento l’idea di un alfabeto proprio per la lingua armena, dando inizio a quel processo formativo che doterà il rito armeno dei propri connotati specifici e di una ricca fioritura di letteratura religiosa ed ecclesiale di traduzione e in lingua. Mesrop è considerato dalla tradizione armena il prototipo dei vardapet (‘maestro’), figura giuridica particolare nella Chiesa armena sino ad oggi, composta dal clero celibatario. I vardapet erano effettivamente i maestri e i teologi ufficiali, un tempo autorevolissimi. Secondo la tradizione, risalirebbe a Mesrop, per una trasmissione ininterrotta, l’investitura del grado, simboleggiato dal baculum magisteriale (gawazan vardapetakan) che viene consegnato ancor oggi con uno speciale rito liturgico.
A partire dal momento della conversione del Regno, il destino dell’Armenia e del popolo armeno fu inscindibilmente connesso a quell’opzione storica. Non appena trascorso un secolo e mezzo, nel 451, la Chiesa armena affronterà il suo primo battesimo di sangue comunitario, noto come il “martirio dei Vardanankh”, guidata dalla convinzione saldamente confessata ed espressamente dichiarata: “Chi credeva che il cristianesimo fosse per noi come un abito, ora saprà che non potrà togliercelo come il colore della nostra pelle” (Eghishe [Eliseo], Storia della guerra di Vardan e degli Armeni, cap. V). Tale convinzione suggellerà per i secoli successivi l’animo e la cultura del popolo armeno e inciderà nella maniera più emblematica nell’olocausto genocidario dell’inizio del Novecento. Infatti, pur essendo gli ideatori del progetto di sterminio motivati soprattutto da fattori di ordine diverso da quello religioso, fu quest’ultimo in ogni caso a prestare, alla resa dei fatti, il criterio di discriminazione effettiva nella decisione tra vita e morte: si sono potuti salvare quanti accettarono di rinnegare la fede cristiana.



Il rito armeno
Il rito armeno, vicino alla famiglia antiochena, è considerato come un ramo a se stante nel complesso dei riti orientali. L’antico rito della Cappadocia ebbe in Armenia notevoli riflessi. Ci è pervenuto, ad esempio, l’anafora di San Basilio in armeno in una forma molto più arcaica rispetto alla vulgata bizantina. Gli influssi bizantini diretti, sostanzialmente crisostomiani, nella liturgia eucaristica sono di epoca relativamente tarda (XI-XII sec.); ancora più tardi sono gli influssi occidentali nella Messa e nel rito delle ordinazioni (XIII-XV sec.).


Tra le caratteristiche salienti del rito armeno, sono da notare in particolare le seguenti: a) la celebrazione dell’Eucaristia col pane azzimo, unico tra tutti i riti orientali, senza averla mutuata dal mondo latino; b) la celebrazione, unica, questa, nell’intero mondo cristiano, senza commistione di acqua nel vino eucaristico; c) la celebrazione del Natale e dell’Epifania insieme, secondo l’arcaica usanza orientale, il 6 di gennaio; d) il significato cristologico del canto del Trisagio, sottolineata dall’aggiunta dell’acclamazione «che fosti crocifisso per noi». Tale connotazione cristologica del Trisagio è un’eco anch’essa della tradizione più antica residua, oltre che nelle Chiese non calcedonite dell’antico Oriente, pure nella Chiesa di Roma negli “Impropèri” del Venerdì Santo, anteriori alla riforma liturgica del Vaticano II, i quali erano accompagni appunto dal canto del Trisagio il quale non poteva non avere nel dato contesto altro significato che non quello cristologico, e persino in alcuni tropari bizantini.


La Liturgia armena, conformemente alla struttura generale delle liturgia cristiana, si divide in due parti fondamentali: Liturgia della Parola o Sinassi, detta in armeno “Liturgia meridiana” (Çashu pashton, ad litt. “Liturgia del pasto”), e Liturgia eucaristica, cioè l’Anafora, il Pataragamatuyts (ad litt. “offerta del dono/sacrificio”). La Sinassi è preceduta da un rito preparatorio, composto dal Confiteor e dal Salmo XLII, mutuati dal rito romano nel tardo Medioevo, e dalla Protesi, vale a dire la preparazione dei Doni su un altarino laterale appositamente allestito. La liturgia della Parola si suddivide in cinque momenti principali: l’introito, “l’ingresso minore” con la processione dell’Evangelo e col Trisagio (Yereksrbian), letture bibliche, dimissione dei catecumeni, “l’ingresso maggiore” con la traslazione dei doni dalla protesi sull’altare del sacrificio, cioè l’altare maggiore (Veraberum, ad litt. “anafora”).
Nell’antichità parecchie anafore furono praticate dagli armeni. L’unica oggi in uso è quella attribuita a Sant’Atanasio, di provenienza comunque cappadoce, che soppiantò le altre anafore, pare, a partire dal X-XI secolo. Essa costituisce di per sé un’unica grande preghiera, articolata in vari momenti, che inizia con l’invocazione “Signore Dio degli eserciti e fattore di tutti gli esseri” e termina con una solenne dossologia trinitaria che precede il Padre nostro, ambedue proferite oggi – sia l’invocazione che la dossologia – dal celebrante a voce sommessa. Tra l’invocazione e la dossologia si collocano il rito del “santo saluto”, il prefazio, l’anamnesi, l’epiclesi, la supplica per l’intercessione della Vergine e dei Santi, la commemorazione dei vivi e dei defunti.
Al Padre nostro segue l’Elevazione, un momento particolarmente suggestivo del rito armeno. L’Elevazione è accompagnata da una confessione trinitaria alternata tra il celebrante, i diaconi e il coro, e si conclude con il solenne invito del celebrante a cibarsi del Corpo e del Sangue del Salvatore: “vita, speranza, risurrezione, espiazione e remissione dei peccati”. Questo invito è oggi accompagnato dalla benedizione dell’assemblea con le sacre specie. Seguono la comunione, che si fa per intinzione, il ringraziamento e i riti di dimissione.




L’anno liturgico si divide in sette cicli di circa sette domeniche ciascuno. È tipica la classificazione assai rigorosa del “mistero” dei giorni liturgici con reciproca esclusione. Così le domeniche sono esclusivamente il “Giorno del Signore”, per cui nessuna festa di santo può esservi celebrata. Ogni domenica commemora unicamente la Risurrezione di Cristo. Solo una festa “domenicale”, cioè del Signore, come l’Epifania, può essere celebrata di domenica. È da notare inoltre che le feste della Vergine sono tutte considerate domenicali, in quanto inscindibilmente connesse coi misteri dell’Incarnazione e della Redenzione. È invece usanza relativamente tarda, divenuta comune probabilmente tra l’XI e il XII secolo, quella di spostare alcune feste fisse, come l’Assunzione e l’Esaltazione della Croce (ma mai l’Ascensione e l’Epifania), alla domenica più vicina. Il tempo pasquale si protrae per quaranta giorni fino all’Ascensione, con la liturgia della Risurrezione celebrata ogni giorno. Seguono i dieci giorni dell’Ascensione, indi la Pentecoste (Pentekoste oppure Hogegalust, cioè Avvento dello Spirito) con Ottavario, celebrati sempre con liturgia domenicale. Di ottavari sono insignite inoltre l’Epifania e l’Esaltazione della Croce, di Novenario (originariamente triduo) l’Assunzione, di Triduo la Trasfigurazione.
Come di domenica non si celebrano feste di santi, per l’eccelsa dignità del giorno, esse non si celebrano neppure, quasi per difetto, il mercoledì e il venerdì, giorni dedicati alla penitenza e all’astinenza/digiuno. Solo le feste domenicali prevalgono su questi giorni, togliendone l’astinenza/digiuno. Giorni penitenziali, quindi senza celebrazione di santi, sono inoltre l’intera Quaresima e le settimane che precedono le grandi feste domenicali: Epifania, Trasfigurazione, Assunzione, Esaltazione della Croce, eccetto il sabato. Il lunedì successivo di ognuna di queste feste,
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