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050919 - Turchia sono proibiti i libri che parlano del genocidio di Odoardo Reggiani da l’Opinione.it
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Tra il dicembre 1914 e il febbraio 1915 il comitato centrale del partito Unione e Progresso (Ittihad ve Terraki), braccio politico del movimento ultranazionalista dei Giovani Turchi, di cui faceva parte Mustafà Kemal Ataturk, volendo riformare lo stato su base nazionale e sulla omogeneità etnica, linguistica e religiosa, pianificò la totale soppressione degli armeni come popolo. La loro colpa era gravissima:
oltre a essere cristiani (gli armeni furono evangelizzati da San Gregorio nel 301 d.c, epoca in cui il re Tiridate III proclamò il cristianesimo religione di stato facendo dell’Armenia il primo stato cristiano della storia) gli armeni avevano una loro lingua, un loro alfabeto, una forte identità nazionale, tanto da essere un popolo non integrabile né assimilabile nella Turchia post-ottomana, fondata sull’egemonia dell’etnia e della lingua turche nonché della religione e della cultura islamica.
Venne creata una apposita organizzazione paramilitare detta “Organizzazione Speciale” dipendente dal ministero dell’Interno e segretamente incaricata della “soluzione finale” della questione armena. Delinquenti comuni vennero scarcerati, addestrati e inquadrati in bande irregolari (i cosiddetti cetè) col compito di eseguire i lavori più sporchi (rapine, stupri, torture, uccisioni, rastrellamenti) in modo da non lasciare traccia di ciò nei documenti delle forze governative regolari. Il piano scattò tra gennaio e aprile del 1915 secondo uno scrupoloso ordine di priorità premeditato in ogni dettaglio.
I primi ad essere eliminati furono i 350.000 armeni arruolati nell’esercito turco che
vennero disarmati, trasferiti lontano dalle città e mitragliati in massa. Fu poi la
volta dei notabili, dei preti, degli intellettuali, dei giornalisti, dei possidenti,
dei professionisti, insomma della élite armena.
Nella notte del 24 aprile 1915, data simbolica dell’inizio del genocidio, a Costantinopoli ne furono prelevati 600 per essere deportati all’interno dell’Anatolia e trucidati,spesso dopo orrende torture per estorcere confessioni di complottismo, sovversione e spionaggio antinazionale che potessero in seguito fornire una legittima giustificazione delle esecuzioni e delle deportazioni dato il tempo di guerra. La nazione armena venne decapitata, ma dopo il cervello e le braccia bisognava distruggerne il corpo, costituito dal resto della popolazione.
Da maggio a luglio toccò alle province orientali:
Erzerum, Bitlis, Harput, Sivas, Van, Diyarbakir e Trebisonda. Da agosto in avanti la pulizia etnica si estese al resto dell’impero. Camuffato inizialmente come evacuazione resa necessaria da esigenze militari, il piano procedette ovunque con le stesse modalità: eliminazione dei capi politici e dei notabili, perquisizioni, arresti ed esecuzioni in massa degli uomini, deportazioni delle donne, dei vecchi e dei bambini con generica destinazione Mesopotamia.
Incolonnati e fatti avanzare a piedi per centinaia di chilometri nel deserto senza cibo né acqua e senza sosta, i deportati venivano continuamente sottoposti a saccheggi, stupri, aggressioni da parte delle bande di cetè e dalle stesse guardie che avrebbero dovuto proteggere il trasferimento.
Morirono a centinaia di migliaia. Le donne giovani e le bambine venivano rapite per essere vendute ai bordelli o date in moglie ai predoni. I pochi sopravissuti giunsero nel campo di raccolta di Aleppo in condizioni drammatiche. Tutti gli studi concordano su un numero di vittime che va da 1,2 a 1,5 milioni; numero di per sé allucinante ma, se rapportato alla totalità della popolazione armena dell’impero ottomano, di poco superiore ai due milioni, dà l’idea dell’unicità di questo olocausto.
È infatti un intero popolo ad essere stato decimato. Con una aggravante rispetto ai genocidi che lo seguirono (Shoà,Gulag e Cambogia comunisti, Ruanda, Sudan ed altri) ovvero il pervicace negazionismo, prima da parte degli ideologi e degli autori materiali del crimine, poi dai governi che si sono succeduti. In Turchia l’argomento è ancora oggi tabù. Si confiscano i libri che parlano del problema. Chi lo fa viene processato, emarginato, sottoposto a pressioni e vessazioni di ogni tipo.
Eppure, come scrive Yves Ternon (Gli armeni, il genocidio dimenticato, Rizzoli) “Il genocidio armeno non è una ipotesi; è una certezza”; e ancora: “Anello debole della prova, l’intenzione, è, benché si sia tentato in ogni modo di negarla, indiscutibile!”. Molte sono le testimonianze di diplomatici che nei loro dispacci ai rispettivi governi davano a caldo una versione terrificante dei fatti.
Come riporta ancora Ternon, il console americano di Aleppo, Jackson, scriveva: “Non è un segreto che il piano ideato (dal governo turco, ndr) consista nell’annientare la razza armena in quanto tale”.
E l’ambasciatore tedesco Wangenheim il 7 luglio: “Le condizioni nelle quali viene effettuato il trasferimento dimostrano chiaramente che il governo mira in realtà all’annientamento della razza armena nell’impero ottomano.” Ora la Turchia bussa alle porte dell’Europa. Farne parte dovrebbe richiedere la condivisione dei basilari principi di una democrazia incluso l’obbligo alla verità storica. La Germania di Willy Brandt riconobbe le colpe della Germania nazista.
L’adesione all’Ue può e deve rappresentare l’occasione per giungere finalmente al ristabilimento della verità sulla tragedia del fiero popolo armeno.
V.V
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