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051014 - La Cecenia contagia il Caucaso
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da Aprile onLine 14/10/05
Terrorismo. Estremisti islamici danno l'assalto alla città di Naltick, capitale della repubblica della Kabardino-Balkaria. Putin invoca il pugno di ferro. La storia di un conflitto
Carla Ronga
Ieri mattina un commando di estremisti islamici, composto da circa 200 elementi, ha assaltato le forze di sicurezza, l’aeroporto e altri edifici governativi a Naltick, capitale della repubblica caucasica russa della Kabardino-Balkaria. Immediata la reazione di Mosca, da dove il presidente Putin ha ordinato di “uccidere tutti i terroristi”. Le forze speciali dell’esercito russo con blindati ed elicotteri da combattimento hanno chiuso le strade di accesso alla città e hanno aperto la caccia all’uomo per eliminare i guerriglieri. In pochi attimi la città si è tramutata in un campo di battaglia.
Più di 80 le vittime, tra cui 12 civili, 20 poliziotti e oltre 50 terroristi.
Poche le notizie che arrivano da questa piccola repubblica. Le televisioni locali tacciono. La gente resta barricata in casa o in ufficio aspettando che la nube nera che ha coperto il loro cielo si dissolva. Le agenzie russe battono poche righe ogni ora, quasi a voler centellinare la verità. Ma la verità è molto più complessa di quanto quelle poche, scarne notizie possano far trapelare.
In Kabardino-Balkaria è attivo da circa due anni il gruppo armato islamico Yarmuk, che già lo scorso dicembre assaltò gli uffici della polizia anti-droga di Nalchik. In quell’azione i guerriglieri uccisero 4 agenti e sottrassero dall’armeria un’ottantina di fucili mitragliatori, centottanta pistole e molte casse di munizioni, prima di dare alle fiamme l’edificio. Il gruppo rivendicò l’azione con un comunicato in cui si denunciava come il commercio della droga nella repubblica sia “gestito, non combattuto, dall’amministrazione locale con la copertura dei servizi segreti russi”.
Così, all’insegna della lotta ai trafficanti di droga, Yarmuk ha lanciato la sua guerra santa contro il “tirannico e corrotto regime fantoccio” della Kabardino-Balkaria accusandolo di essere nient’altro che un’organizzazione che “opprime, intimidisce e sfrutta la popolazione per i propri interessi
criminali”, facendo crescere “povertà, disoccupazione, alcolismo, tossicodipendenza, criminalità, prostituzione e depravazione” nella repubblica, e portando avanti una brutale politica di repressione della religione islamica, con la persecuzione poliziesca dei fedeli islamici e con la chiusura delle
moschee.
Un quadro, a volerlo vedere, non distante dalla drammatica realtà socio-economica della Kabardino-Balkaria, dove i giovani disoccupati che non si danno alla droga e all’alcol diventano facile preda della propaganda del radicalismo islamico di matrice wahabita. Un radicalismo estraneo alla tradizione sufi e moderata dell’Islam caucasico, ma sempre più diffuso tra le nuove generazioni afflitte dalla povertà.
Tutto è cominciato nell’agosto del 2003, quando nella repubblica si diffuse la voce che il famigerato signore della guerra ceceno, Shamil Basayev, si era nascosto a Baksan, un piccolo villaggio nella foresta. Quando, il 24 agosto, la polizia andò a controllare, venne attaccata da un gruppo di guerriglieri, uno dei quali si fece saltare in aria con una carica esplosiva. Nelle settimane successive il governo locale, su ordine di Mosca, avviò una campagna di arresti di massa nelle moschee della piccola repubblica, che poi vennero chiuse, mentre bande di ragazzi protetti dalla polizia organizzarono un vero e proprio pogrom contro gli studenti universitari di origine cecena. Tra il 15 e il 17 settembre 2003, centinaia di universitari ceceni vennero assaliti nei dormitori dell’ateneo di Nalchik, per le strade, all’uscita dai cinema e dal teatro. Da allora, nonostante la chiusura delle moschee e l’incarcerazione di molti leader islamici locali, l’estremismo anti-governativo non ha fatto che aumentare. Lo Yarmuk ha fatto proseliti. Fino al 1991 dire Caucaso voleva dire Unione Sovietica. Alla fine degli anni Ottanta il venir meno del controllo di Mosca ha dato il via a una serie di tensioni e conflitti ancora irrisolti. Il più noto è quello della Cecenia, soprattutto per i legami dei guerriglieri con la rete di Al Qaeda.
Grande poco meno della Francia, il Caucaso è la cerniera tra Europa e Asia, tra cristianesimo e islam. Un puzzle di etnie, lingue, religioni e storie diversissime. Il secolare dominio russo (zarista prima, sovietico poi) non è riuscito a cancellare le identità nazionali e a spegnere le istanze di indipendenza. Per Mosca, il Caucaso è stato sempre la porta per il Medio Oriente. Ricco di petrolio, oggi è anche lo snodo cruciale per gli oleodotti (alcuni già operanti, altri in fase di realizzazione) che collegano le riserve naturali dell’Asia centrale al Mar Nero. Una regione di importanza strategica fondamentale, dunque. Non a caso, dopo l’11 settembre 2001, le giovani e fragili democrazie di quest’area, controllate da ex burocrati sovietici padroni assoluti della scena politica, sono oggi al centro di una grande partita a scacchi tra Russia e Stati Uniti. Questa sorta di risiko geopolitico si gioca soprattutto in Georgia, Arzebaigian e in Armenia. Ma le conseguenze hanno confini ben più vasti. Nel febbraio 2002, Washington ha inviato in Georgia i suoi consiglieri militari
per sostenere l’esercito locale contro i ribelli ceceni nella cosiddetta “Gola di Pankisi”, e per contrastare la forte influenza di Al Qaeda nell’area.
L’obiettivo vero è controllare l’oleodotto che da Baku (sulla costa azera del Mar Caspio), raggiunge Supsa (sulla costa georgiana del Mar Nero). La fine dell’era Shevardnadze (nel 2003) ha rimescolato non poco le carte. Mosca è tornata a fare la voce grossa, minacciando a più riprese l’intervento militare.
In Azerbaigian vige una specie di “presidenza dinastica”. Nell’ottobre 2003 Ilham Älyiev, figlio del presidente uscente, ha vinto al primo turno le elezioni presidenziali ma l’opposizione e l’Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza europea (Osce) hanno denunciato brogli mettendo in discussione la regolarità del risultato. La comunità internazionale sembra però chiudere
entrambi gli occhi. Anche perché l’Azerbaigian è l’unico dei tre stati indipendenti a netta maggioranza islamica e una “democrazia controllata” conviene a tutti i vicini.
Più singolare la situazione dell’Armenia, che sta vivendo una sorprendente crescita economica grazie agli investimenti stranieri. Per questo minuscolo avamposto cristiano tra paesi musulmani alcuni osservatori ipotizzano addirittura un futuro di grande prestigio internazionale sotto l’ala protettiva degli Usa e della potente lobby armeno-americana.
Di certo è impensabile che Mosca rinunci a una regione che considera sua da sempre e che oggi è ancora più importante per lo sfruttamento di risorse energetiche vastissime. A quasi quindici anni dalla fine dell’Urss e del comunismo, per i popoli del Caucaso libertà e indipendenza sono ancora termini molto vaghi. Ma la Jihad contro i corrotti regimi fantoccio rischia di trasformare tutte le repubbliche dell’area in tante nuove Cecenia.
V.V
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