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051019 - La Turchia specchio d’Europa
• da La Stampa del 3 ottobre 2005, pag. 1
di Barbara Spinelli
Prima ancora di aver deciso come ripartire dopo i referendum demolitori nel mese di maggio, prima ancora di aver immaginato una via d’uscita dallo stato di sfaccendata malavoglia in cui si trovano, gli Stati europei sono costretti a porsi una domanda fondamentale: c'è spazio per la Turchia, nell’Unione fin qui costruita? E quest'Unione così come oggi è fatta possiede la capacità di accogliere un paese demograficamente forte, dotato di un possente senso dello Stato-nazione, aggrappato con lacci saldi a un'idea etnica dell'identità, come oggi è la Turchia? Molto più della diversità religiosa, sono queste differenze che pesano nei futuri incontri europei con il candidato all'adesione, e che possono impedire l'apertura di un negoziato sui tempi, i modi, le condizioni dell'ingresso turco in Europa. Come ha detto Franco Venturini sul Corriere della Sera, quel che chiamiamo problema turco è in realtà un problema nostro: problema che sarebbe meglio chiamare male, e che la crisi dei referendum ha tangibilmente acuito. A cominciare dal mese di maggio le opinioni pubbliche hanno fatto irruzione in Europa, paralizzando il suo cammino verso una costituzione unitaria e rivelando al contempo l'esistenza di una vasta ostilità agli allargamenti dell'Unione: quelli recenti, e specialmente quello alla Turchia di cui si dibatte adesso. Se nulla cambia in questo male dell'Unione, c'è il pericolo che Ankara «fra 10 o 15 anni entri nel fantasma di un'Europa perduta» (Corriere, 30-9-05).

Tutto sta dunque a non perdere l'Europa e la sua ragion d'essere, nel momento in cui si discute delle due possibilità che essa ha davanti: mantenere la promessa d'adesione fatta alla Turchia da molti decenni, oppure rinviare il negoziato congelandolo.

In ambedue i casi l'Unione dei 25 è a un bivio: se non dice quel che vuole essere e divenire, se non esce dalla malavoglia in cui ha cacciato se stessa, se non capisce che per contare ha bisogno di trasformarsi in un’Unione autentica, capace di decidere e darsi i mezzi mettendo assieme i deboli poteri dei singoli Stati-nazione e affiancando alla sovranità di questi ultimi l'autorevolezza di una sovranità superiore, l’Europa non sarà in grado di dire alcunché, né alle proprie opinioni pubbliche e neppure, di conseguenza e in simultanea, all'interlocutore turco.

Anche se malati infatti, e impigliati nell'accidia, i governanti europei hanno di fronte un’occasione veramente preziosa: rispondere alla Turchia non è possibile senza preliminarmente rispondere a se stessi; aprire al nuovo candidato implica una ridefinizione di quel che si vuole e di come s'intende agire per non affossare l'Unione, e questo significa che il problema dell'adesione più che un problema è la soluzione stessa. Se la questione non è religiosa ma piuttosto - come crediamo - politico-istituzionale e politico-storica, se la differenza tra noi e loro è un'idea diversa della sovranità nazionale e dell'identità etnica più o meno plurale, allora individuare e mettere a fuoco tale differenza può servire da bussola, nella strada che l'Europa sta cercando per rifondarsi, costruirsi meglio, allargarsi senza traumi. Individuate e non più mascherate, queste differenze diventano i veri confini dell’Unione.

Basterebbe che gli europei ricordassero dunque i motivi per cui si sono uniti e vogliono unirsi ancor più, e la risposta alla Turchia verrebbe naturale. «Volete entrare in un'Europa che ha imparato dalla propria storia a non fidarsi della sovranità nazionale assoluta, e che per questo ha delegato a una superiore Unione non tutta la sovranità ma una gran parte di essa? Volete condividere l'allergia degli europei verso le identità etnicamente omogenee, anch'essa appresa dalla storia?». Chiedere che la Turchia risponda non vagamente ma in concreto a questi interrogativi presuppone che l'Europa ripensi - facendo tesoro del dialogo con Ankara - le ragioni del suo stare assieme e gli impedimenti che cronicamente si frappongono alla nascita di un'unità sovrannazionale meno aleatoria, non sostitutiva degli Stati quando questi sanno agire da soli ma efficace quando da soli essi periclitano. Le opinioni pubbliche e perfino i detrattori della costituzione reclamano in fondo proprio questo ripensamento, ritenendolo scarseggiante: e in effetti esso ha occupato di rado le menti dei convenzionali che son stati incaricati di proporre il trattato costituzionale e che, influenzati da Giscard, hanno innanzitutto cercato di non urtare le suscettibilità dei sovrani nazionali.

Negoziare e porre condizioni alla Turchia vuol dire ricordarle le vere differenze fra la nostra e le sua storia, non quelle false, pretestuose. È quello che rende così sterile e ipocrita l'ostilità di Vienna e di tanti politici dell'Unione all'apertura del negoziato: come se tener fuori Ankara aiutasse a superare la malavoglia in cui l'Unione è impantanata; come se i detrattori dell'adesione sapessero davvero quel che dicono e vogliono, quando constatano l'incompatibilità turco-europea tacendo i collassi dell'Unione e fingendo anzi che essa esista già, robusta e ben regolata.
Le differenze tra noi e loro naturalmente esistono, ed è importante che il Parlamento europeo le abbia adombrate proprio in questi giorni. Riconoscere il genocidio perpetrato dallo Stato turco a danno degli armeni nel 1915 (un genocidio che Hitler prese a modello: più di un milione di morti); riconoscere Cipro e la necessaria convivenza nell'isola fra turchi e greci: questo domandano soprattutto i parlamentari europei, e ogni volta è in questione l'atteggiamento verso il proprio passato, la lezione che se ne trae. La Turchia - a differenza degli Stati europei che nel dopoguerra costruirono il Mercato Comune - non ha almeno ufficialmente un medesimo sguardo sulla storia di ieri: non ne riconosce gli orrori, quindi non vuole neppure superare lo Stato-nazione assolutamente sovrano che ha reso possibili genocidi, guerre, insanabili conflitti con minoranze. L'Europa dopo il '45 si è unita attorno a un grande no: no all'identità nazionale etnica, no al nazionalismo che sradica il diverso, le minoranze. È interessante che questo no sia oggi singolarmente debole in nazioni post imperiali come Austria e Turchia.

A queste differenze turche si potrebbe aggiungere il processo a Orhan Pamuk, fissato per il 16 dicembre - l'ultimo suo romanzo s'intitola Neve (Einaudi); i suoi libri sono stati bruciati in piazza da estremisti nella cittadina di Bilecik. Il processo prende l'avvio da quel che lo scrittore ha dichiarato in febbraio, quando sul giornale svizzero Tages-Anzeiger ha detto che in Turchia c'è ancora silenzio sui massacri delle minoranze armene e curde, e non solo silenzio ma tabù e diniego. L'articolo del codice penale lo rende imputabile di «vilipendio e offesa dell'identità turca» - della turchicità - e prevede pene da 6 mesi a quattro anni. Un paese che processa romanzieri per quel che scrivono sul passato nazionale ha poco spazio nell'Unione, per il semplice fatto che l'Europa ha il proprio fondamento su scritti di questo genere.

Anche gli elettroshock nelle cliniche turche - rivelati dal New York Times il 29 settembre - rischiano infine d'essere un ostacolo. Usati in molti ospedali come strumenti di punizione (per questo non si usa l'anestesia, hanno dichiarato medici turchi: «Se l'usassimo, l'elettroshock non sarebbe così efficace perché i pazienti non si sentirebbero puniti»), applicati per addomesticare bambini e donne in depressione post partum, equivalgono a torture secondo l'Organizzazione internazionale per i diritti dei disabili che ha denunciato Ankara (Mental Disability Rights International, presieduta da Eric Rosenthal).

Torture psichiatriche, rifiuto di riesaminare la propria storia e superare la nozione dell'identità etnica omogenea, facendo posto alle minoranze che esistevano nell’impero ottomano prima della nascita dello Stato turco. Questo fa della Turchia un difficile ospite in Europa: un ospite laico religiosamente, ma non ancora laico nel rapporto con minoranze etniche o intellettuali. Per capirlo conviene leggere Pamuk stesso, quel che ha detto dopo l'11 settembre. In un articolo sul New York Review of Books (La collera dei dannati, 15-11-2001), il romanziere descrisse quel che era il suo maggiore incubo: che le democrazie liberali reagissero all'attentato terrorista con una guerra tra identità religiose, senza ascoltare i «dannati della terra» accanto a noi, e corrodendo - in nome di un'identità etnica e culturale che si sente assediata - gli Stati di diritto nelle democrazie. Pamuk ha dato un nome a questa regressione possibile: il pericolo, ha detto, «è che Europa e America diventino una specie di grande Turchia: uno spazio dove la democrazia è fortemente limitata, la modernizzazione è un lavoro non finito, l'intolleranza verso le minoranze è la regola», e «il mondo è governato quasi permanentemente dallo stato marziale».

Stupisce meno a questo punto che i fautori dell'allargamento siano spesso gli stessi che poi auspicano lo scontro globale fra religioni e un'identità europea se possibile epurata, non meticcia. Far entrare la Turchia sulla base di ragionamenti identitari è un mezzo non troppo recondito che si usa per perdere l'Europa: le ragioni per cui è nata, s'è unita, e ancor oggi è necessaria.xml:namespace prefix = o ns = "urn:schemas-microsoft-com:office:office" /

V.V

 
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