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051215 - Orhan Pamuk, «La rabbia dei dannati»
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Orhan Pamuk, La nuova vita, Einaudi
«La rabbia dei dannati»
Dopo Andrea Canobbio, Amitav Ghosh, Martin Amis, e Shafique Keshavjee, un altro grande autore, Orhan Pamuk, racconta come ha vissuto l'attacco dell'11 settembre agli U.S.A e ne commenta le tragiche conseguenze. L'articolo che pubblichiamo è comparso sulla New York Review of Books il 15 novembre scorso.
Ho sempre pensato che le catastrofi rafforzassero il senso della comunità. Subito dopo i terribili incendi ad Istanbul della mia infanzia e il terremoto di due anni fa, il primo pensiero che ho avuto è stato quello di condividere i sentimenti che provavo, discutere con gli altri del disastro. Ma questa volta, seduto di fronte al televisore in un piccolo caffè di Istanbul, vicino al molo, frequentato da carrettieri, malati di tubercolosi e scaricatori, mentre le torri gemelle di New York crollavano bruciando, mi sono sentito disperatamente solo.
Immediatamente dopo lo schianto del secondo aereo i canali della televisione turca hanno cominciato a trasmettere programmi in diretta. Una piccola folla riunita nel caffè guardava quelle incredibili immagini sullo schermo con distaccato stupore, sorpresa ma apparentemente non intaccata in profondità. Ad un certo punto stavo quasi per alzarmi di scatto e gridare: “ho passato tre anni della mia vita a Manhattan. Ho vissuto in mezzo a quei palazzi. Ho camminato tra quelle vie senza un soldo in tasca. Ho incontrato delle persone dentro quelle torri.”. Ma, come in quei sogni in cui ci si sente sempre più soli, non ho potuto fare altro che rimanere in silenzio.
Ho deciso di uscire in strada perché non potevo più sopportare quelle immagini e soprattutto perché volevo condividere con altre persone ciò che avevo visto. Pochi istanti dopo, sul molo, tra la folla che aspettava il traghetto, ho incrociato con lo sguardo una donna in lacrime. Dalla sua espressione e dalle facce di quelli che la circondavano, ho capito che non stava piangendo perché aveva un parente a Manhattan ma perché pensava che stesse per arrivare la fine del mondo. Da bambino, nel periodo in cui si temeva che la crisi di Cuba avrebbe scatenato la terza guerra mondiale, ho visto donne altrettanto sconvolte disperarsi e gridare mentre le famiglie della classe media di Istanbul facevano rifornimento di maccheroni e lenticchie.
Sono tornato nel caffè e ho ripreso ad osservare le scene in televisione, intrappolato dalla stessa irresistibile ossessione che stava ipnotizzando il resto del mondo.
Più tardi, camminando nuovamente in strada, ho incontrato uno dei miei vicini di casa. “Signore, ha visto, hanno bombardato l’America,” ha detto, aggiungendo con ferocia, “ hanno fatto bene.”
Questo anziano signore non è affatto religioso. Fatica a guadagnarsi da vivere facendo piccole riparazioni e del giardinaggio; di sera si ubriaca e litiga con la moglie. Non aveva ancora visto le quelle scene spaventose, ma solo sentito dire che qualcuno aveva fatto qualcosa di orribile all’America. Ho ascoltato anche altre persone esprimere una rabbia simile a quella della sua reazione iniziale (della quale successivamente si sarebbe pentito). In un primo momento, in Turchia, molti parlavano della brutalità del terrore e di quanto l’attacco fosse spregevole e spaventoso. Poi, però, hanno fatto seguire alla loro denuncia alcuni “ma”, criticando in modo ora contenuto ora risentito il potere politico ed economico dell’America. Dibattere del ruolo degli Stati Uniti nel mondo all’ombra del terrorismo che si basa sull’odio verso l’ “Occidente” e che uccide brutalmente persone innocenti è estremamente difficile, oltre che moralmente discutibile. Ma nel vivo della legittima collera verso i malvagi atti di terrore, per qualcuno sarà facile pronunciare parole che potrebbero condurre al massacro di altre persone innocenti. In previsione di questo, sono necessarie alcune riflessioni.
Ognuno dovrebbe essere consapevole del fatto che quanto più dureranno i bombardamenti e quante più persone innocenti moriranno in Afghanistan o in qualsiasi altra parte del mondo per soddisfare le esigenze degli americani, tanto più crescerà e s’inasprirà la tensione fittizia che alcuni gruppi stanno cercando di creare tra ”Oriente” e ”Occidente” o tra ”Islam” e “Civiltà Cristiana”; e questo servirà soltanto ad appoggiare il terrorismo che l’azione militare si sta predisponendo a punire.
Ora è moralmente impossibile discutere del dominio dell’America sul resto del mondo di fronte alla spietatezza dei terroristi responsabili dell’uccisione di migliaia di innocenti. Allo stesso tempo, dovremmo provare a capire perché milioni di persone nei paesi poveri che sono state messe da parte e private del diritto di decidere anche delle loro stesse vite, provino così tanta rabbia verso l’America.
Non siamo sempre obbligati, d’altra parte, a guardare con comprensione a questo rancore. Inoltre, in molti paesi del terzo mondo e in molti paesi islamici, il sentimento anti-americano non è tanto una vera e propria rabbia, quanto uno strumento impiegato per dissimulare la mancanza di democrazia e rafforzare il potere dei dittatori locali. I comportamenti tipici e diffusi in alcune società dalla mentalità assai arretrata - come l’Arabia Saudita, che sembra far di tutto per dimostrare i suoi significativi legami con l’America fossero stati stretti per provare al mondo che l’Islam e la democrazia sono termini inconciliabili - non sono d’incoraggiamento per chi lavora a costituire democrazie secolari nei paesi musulmani. Allo stesso modo, una superficiale ostilità verso l’America, come nel caso della Turchia, consente agli amministratori del paese di sperperare, attraverso la corruzione e l’incompetenza, il denaro che ricevono dalle istituzioni finanziarie internazionali e di nascondere il divario tra ricchi e poveri che in Turchia ha raggiunto proporzioni intollerabili.
C’è chi oggi, negli Stati Uniti, appoggia incondizionatamente l’attacco allo scopo di dimostrare la forza militare dell’America e di dare ai terroristi “una lezione”. Alcuni discutono allegramente in televisione sugli obiettivi che gli aerei dovrebbero bombardare, come se si trattasse di un videogame. Certi commentatori dovrebbero rendersi conto del fatto che la decisione di attaccare prese impulsivamente e senza le dovute considerazioni, non faranno che intensificare l’ostilità verso l’Occidente già assai diffusa in milioni di persone che vivono nei paesi islamici e nelle regioni del mondo oppresse dalla povertà - gente che vive in condizioni tali per cui inevitabilmente finise per maturare un forte senso di inferiorità e umiliazione. Non sono l’Islam o la povertà in sé a generare direttamente supporto a terroristi la cui ferocia e ingenuità non hanno precedenti nella storia dell’umanità; il nucleo del problema è la schiacciante umiliazione che ha infettato i paesi del terzo mondo.
In nessun’altra epoca storica l’abisso tra ricchi e poveri è stato così ampio. Si potrebbe rispondere che la ricchezza dei paesi sviluppati è un’obiettivo che si sono conquistati da soli, e che non dovrebbe incidere sul destino dei poveri del mondo; mai come ora, tuttavia, l’esistenza dei ricchi è stata così fortemente sottoposta all’attenzione dei poveri attraverso le immagini globali della televisione e dei film hollywoodiani. Bisogna anche ricordare, del resto, che i racconti delle vite dei re hanno sempre costituito il divertimento principale dei poveri. Ma la cosa peggiore è che in nessun’altra epoca le società ricche e potenti del mondo sono state così chiaramente giuste e “ragionevoli”.
Oggi un comune cittadino di un paese musulmano non democratico e povero, oppure un impiegato statale in un paese del terzo mondo o in una vecchia repubblica socialista, che lotta per sbarcare il lunario, è consapevole di quanto inconsistente sia la porzione di ricchezza di cui dispone; sa perfettamente di vivere in condizioni più dure e devastanti di un abitante medio degli stati occidentali e di essere condannato ad una vita più breve. Nel contempo avverte in un angolo della sua mente che la povertà è in parte responsabilità della sua stessa follia e inadeguatezza, o di quella di suo padre o suo nonno. Il mondo occidentale non riesce a capire questo opprimente senso di umiliazione, che pervade gran parte delle popolazioni del mondo; è un sentimento che le persone devono provare a superare senza perdere il proprio buon senso, e senza lasciarsi sedurre dai terroristi, i nazionalisti estremisti, o dai fondamentalisti. Questa è la spietata, tormentata sfera privata che né i romanzi fantastico-realistici in cui la povertà e l’inconsapevolezza vengono circondate da un’aura di fascino né l’esotismo della letteratura popolare di viaggio possono comprendere fino in fondo. Ed è per il fatto di vivere in una sfera privata del genere che molte persone nel mondo oggi sono afflitte da miseria spirituale. Il problema che l’Occidente deve affrontare non è solo scoprire quale terrorista stia preparando la prossima bomba, in quale tenda, in quale grotta, in quale città, ma anche comprendere la misera, disprezzata, ‘ingiusta’ maggioranza che non appartiene al mondo occidentale.
Le grida di guerra, i discorsi nazionalistici, e le impetuose azioni militari vanno nella direzione opposta. Invece di accrescere la comprensione, molte azioni attuali intraprese dall’Occidente e molte linee di condotta stanno rapidamente conducendo il mondo più lontano dalla pace.
Tra queste vi sono le restrizioni per il nuovo visto d’ingresso imposte da molti paesi occidentali europei nei riguardi dei viaggiatori che non provengono dall’UE; le misure d’applicazione della legge hanno contribuito ad ostacolare lo spostamento dei musulmani e delle popolazioni delle nazioni povere; al sospetto verso l’Islam e tutto ciò che non è occidentale; e al linguaggio crudo e aggressivo che identifica l’intera civiltà islamica con il terrore ed il fanatismo. Cosa spinge e corrode un anziano signore di Istanbul ad esultare per il terrore di New York in un momento di rabbia, o un giovane palestinese che non ne può più dell’oppressione israeliana ad ammirare i talebani, che cospargono le donne di acido nitrico perché hanno mostrato il volto? Non è l’Islam o ciò che viene stupidamente descritto come il contrasto tra Est e Ovest, e neppure la povertà in sè. E’ il sentimento d’impotenza che deriva dal degrado, dall’impossibilità d’essere compresi e dall’incapacità di far sentire la propria voce. I membri della classe ricca e modernizzata che ha fondato la Repubblica Turca hanno reagito all’antagonismo dei settori poveri e arretrati della società non tentando di capirli, ma piuttosto inasprendo le leggi, limitando le libertà nei comportamenti individuali e affidando all’esercito il compito di reprimerere. Alla fine lo sforzo di modernizzazione si è fermato a metà, e la Turchia è diventata una democrazia limitata, in cui ha prevalso l’intolleranza. Ora, quando sento persone che invocano la guerra tra Oriente e Occidente, ho paura che gran parte del mondo possa tramutarsi in un luogo simile alla Turchia, governato da leggi marziali in vigore quasi permanente. Ho paura che il presuntuoso e tronfio nazionalismo occidentale possa portare il resto del mondo a sostenere con aria di sfida che due più due fa cinque -come l’uomo del sottosuolo di Dostoevskij - scagliandosi contro il “ragionevole” mondo occidentale.
Nulla può alimentare il sostegno agli “islamici” che gettano acido nitrico sulle facce delle donne quanto il fallimento dell’Occidente nel comprendere i dannati della terra.
(traduzione di Noemi Cuffia)
V.V
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