Zatik consiglia:
Iniziativa Culturale:

 

 

06 -01-24 -Universita' di Siena - GIORNODELLA MEMORIA
Venerdì prossimo, 27 gennaio, si commemora il GIORNO DELLA MEMORIA, istituito dal Parlamento Italiano “…al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in altri campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.”
In questa giornata la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Siena ha programmato una serie di eventi con la consapevolezza che la memoria non può durare un giorno; che non dovrebbe essere una patrimonio di pochi ma un valore per tutti.
Non una ricorrenza celebrativa ma un’occasione di riflessione e approfondimento sulla memoria collettiva e su quella individuale; sull’intolleranza e sui crimini commessi nel nome di false fedi, maschere torve dei privilegi di pochi. Ricordare, dunque, affinché l’incontro di Popoli e di Culture non ceda il passo all’ignoranza; perché il potere di pochi non sia più causa delle miserie di molti.

La giornata si svolgerà presso la Sala Cinema della Facoltà di Lettere e Filosofia, in via Roma 47 a partire dalle ore 10,00.
PROGRAMMA DELLA GIORNATA

Ore 10,00:
Vistara Noga Cimmino presenta canti e musiche della tradizione ebraica dell’Europa orientale,dell’area giudeo spagnola, mediterranea e armena, dal titolo “FUN KOSEV BIZ KITEV”


FUN KOSEV BIZ KITEV, da qui a lì c’è un canto interrotto che continua a vibrare sulla bocca di chi riesce a sentirne la melodia, perché in realtà siamo tutti uno.

FUN KOSEV BIZ KITEV accade la vita con i suoi eventi semplici e straordinari, le sue situazioni dolorose e ingiuste o gioiose e armoniose. Qui o lì c’è la magia di un mondo in pace che può nascere dal cuore di un’Umanità protesa alla comprensione e al perdono. Un’Umanità decisa a superare il dilemma tra vittima e carnefice e a fidarsi della forza di guarigione dell’amore.

1. Shvimt dos Kestl afn Taykh, testo in yiddish di Avrom Reisen ( Il canestro ondeggia sul Nilo )
2. Gehat hob ikh a heym , Cracovia 1941 Poesia di Mordekhay Gebirtig ( Avevo una casa)
3. Fun Kosev biz Kitev, Tradizionale cassidico ( Da qui a lì )
4. Morenika, Antico canto d’amore in ladino ( Mi chiamano Morenica )
5. Iti Milvanon, Canto ebraico dal Cantico dei Cantici ( Vieni con me dal Libano )
6. Shifrales Portret, Cracovia 1939 M. Gebirtig ( Il ritratto di Shifrale )
7. Dos Kelbl, canto yiddish di Aaron Zeitln ( Il vitellino )
8. Shpil zhe mir a lidele in Yidish, Canzone popolare yiddish ( Cantami una canzoncina in yiddish )
9. Shnirele Perele, Canto tradizionale in yiddish ( Filo di perle )
10. Lomir zikh iberbetn, Canto tradizionale in yiddish ( Perdoniamoci )
11. Loosin yelav, Canto popolare armeno ( La luna sorge )

Brani strumentali:
Bashana Haba’a
Nigun


Vistara Noga Cimmino Progetto e Canto
Franco Ceccanti Chitarra
Stefano Franceschini Clarinetto e Sax
Nino Pellegrini Contrabbasso
Ettore Fancelli Percussioni
Carlo Bianchi Chitarra e mandolino

"Armeni: dalla cronaca alle memorie private
alla conoscenza storica"

Le vicende degli armeni invitati a
partecipare, in questa sede, insieme agli ebrei,
alla giornata della memoria, sono state, alternativamente,
ben note o totalmente ignorate nell'opinione pubblica
mondiale.
Nell'intervallo fra le due guerre mondiali
i giornali, le conferenze, le pubblicazioni in lingue
diverse, le stesse opere di narrativa hanno messo sotto gli occhi
di tutti la tragedia armena compiutasi in Turchia nel 1915, e la
situazione degli orfani e dei sopravvissuti armeni
ha costituito uno dei problemi degli Stati e
e delle organizzazioni umanitarie occidentali.
Poi il silenzio è caduto su quegli avvenimenti, di cui
però è stata mantenuta viva la memoria nell'ambito familiare:
le testimonianze, i racconti drammatici, le vicende
di dispersione delle famiglie hanno nutrito l'infanzia
e l'adolescenza della generazione a cui appartengo, come
tesoro doloroso, ma prezioso di un'identità che ha saputo
e voluto integrarsi nei paesi di accoglienza.
Alcuni avvenimenti traumatici recenti: il crollo
dell'URSS, il disastroso terremoto in Armenia, lo sviluppo
globale dell'informazione, la candidatura
della Turchia all'Unione Europea hanno riportato in
primo piano il problema del genocidio del popolo
armeno e della necessità del suo riconoscimento
sul piano storico. Solo attraverso ciò è possibile,
a mio avviso, avviare quel processo di riconciliazione
auspicabile per un pieno recupero di quello che la
presenza e la cultura armena, violentemente sradicata
dalla sua terra di origine, hanno significato per
la stessa storia del popolo turco.

--------------------------- http://www.municipio.re.it/cinema/catfilm.nsf/0/3B8F6AC50F9CBB2BC1256C0F00508306?opendocument Louis Malle Vietato:No Video:Warner Home Video DVD: Genere:Drammatico Tipologia:La guerra, La memoria del XX secolo, Razzismo e antirazzismo Eta' consigliata:Scuole medie inferiori; Scuole medie superiori Soggetto:Louis Malle Sceneggiatura:Louis Malle Fotografia:Renato Berta Musiche:Camille Saint Saens, Franz Schubert Montaggio:Emmanuelle Castro Scenografia:Willy Holt Costumi: Effetti: Interpreti:François Berleand (Padre Michel), Stanislas Carre De Malberg (François Quentin), Raphael Fejto (Jean Bonnet), Peter Fitz (Muller), Gaspard Manesse (Julien Quentin), Philippe Morier Genoud (Padre Jean), François Negret (Joseph), Francine Racette (Signora Quentin), Pascal Rivet (Boulanger) Produzione:Nouvelle Editions De Films S A./ Mk2 Productions/ Paris Stella Film /Nef Munich Distribuzione:Istituto Luce Origine:Francia Anno:1987 Durata: 103' Trama: A Parigi nel 1944, l'undicenne Julien Quentin ed il fratello François salutano la madre, costretta a separarsi da loro a causa della guerra e della situazione che in città sta diventando sempre più critica. Il piccolo è particolarmente affezionato alla giovane donna e soffre per questo distacco. I due fratelli arrivano nel collegio di gesuiti dove giungono anche altri ragazzi benestanti ed incoscienti: in breve tutti riprendono la vita spensierata di allievi più o meno studiosi. Fra loro vengono inseriti dal rettore, padre Jean, tre ragazzi un pò più grandi, uno dei quali, Jean Bonnet, timido, misterioso, molto sensibile, attira subito la curiosità di Julien, che è un pò il leader del gruppo. I ragazzi si fanno dispetti, nutrono antipatie più o meno palesi, avvertono i primi turbamenti della pubertà. Gli insegnanti cercano di essere abbastanza comprensivi e fanno del loro meglio per educare cristianamente gli studenti. Nel collegio lavora come sguattero Joseph, un ragazzo zoppo che si arrangia a guadagnare qualche extra facendo mercato nero. Ma viene scoperto e licenziato: questi per vendetta denuncia alla Gestapo la presenza dei tre ragazzi ebrei nella scuola. I tedeschi fanno quindi irruzione nell'istituto e perquisiscono ogni angolo. Panico, terrore, sgomento sono nell'animo di ognuno. Infine vengono catturati i tre ragazzi e il rettore che li aveva nascosti. Julien capisce ora l'orrore e le aberrazioni di quel tragico momento storico: in modo traumatico il fanciullo cessa di essere bambino per diventare un adulto consapevole del male che gli uomini possono fare ai propri simili in una circostanza drammatica quale è appunto la guerra. Critica 1:Leone d'oro a Venezia '87. Nella carriera di Malle è, dopo Il soffio al cuore, il secondo film esplicitamente autobiografico, il più vicino a Truffaut e non soltanto per l'argomento. Meno originale, forse, ma emotivamente più coinvolgente (con qualche concessione agli stereotipi) di Lacombe Lucien, anch'esso ambientato nella Francia di Pétain, conta per la cura dei particolari e dell'ambientazione, la ricchezza delle invenzioni, una pagina di alta retorica didattica (l'omelia del padre direttore), un epilogo straziante. Autore critica: Fonte criticaIl Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli Data critica: Critica 2:(...) L'aria di Parigi tonifica indubbiamente il regista. Torna alle origini in tutti i sensi: la storia che racconta, semi-autobiografica, è lo sviluppo di un ricordo d'infanzia. Avrebbe dovuto essere il suo primo film, ma se l'è tenuto dentro, coltivandolo per anni in segreto (al contrario di Truffaut, che quando iniziò la sua carriera propose subito sé stesso ragazzo: I quattrocento colpi). Benché abbia raccontato ad alcuni l'episodio di cui fu testimone in collegio, quando aveva undici anni (lo stesso Malle ricorda che tale episodio è stato poi ripreso in un libro di storia e in una sua sfortunata avventura editoriale), il regista si è dimostrato sostanzialmente geloso di quanto gli era capitato. Molti anni fa, ed esattamente nel 1976, a chi l'interrogava sulla sua formazione rispondeva (intervista riportava nel “Castoro” di De Santi): “Sono stato educato in collegi religiosi, allievo dei Gesuiti e poi, nella seconda parte degli studi secondari, in un eccellente collegio retto da carmelitani scalzi, vicino a Fontainebleau. Questo collegio fu chiuso dalla Gestapo tedesca nel gennaio 1944, ma s'è riaperto dopo la Liberazione, nell'autunno dei '44, ed è là che ho fatto i miei ultimi quattro anni di scuola secondaria. Erano studi molto classici con l'accento posto sulla parte umanistica. Ero molto bravo in greco e in francese, nei temi. Leggevo moltissimo e, in particolare, mi è capitato un fatto: durante l'estate dei '45 mi è venuto un reumatismo articolare che è diventato un soffio al cuore, una insufficienza cardiaca detta volgarmente soffio al cuore. Ho lasciato il collegio per due anni e ho lavorato a casa con professori privati”. C'è l'accenno alla chiusura dei collegio ad opera della Gestapo, come si vede, ma l'accenno autobiografico verte sul soffio al cuore (soggetto del suo film dallo stesso titolo, del 1971), non sulla conoscenza del ragazzo ebreo. Naturalmente, riprendendo il ricordo del compagno arrestato dalla Gestapo, per farlo diventare film Malle trasforma e inventa. “I tre quarti del film, personaggi, situazioni, particolari, sono inventati - dichiara lo stesso regista - ma allo stesso tempo non credo proprio che manchi il coinvolgimento, che esista un momento del film che lo abbia scritto o girato impunemente”. è proprio la differenza tra realtà e finzione a costituire la molla del racconto: “Ciò che mi ha spinto a girarlo è il fatto che nella realtà io non ho avuto esattamente questa relazione con Bonnet e io credo che questa cosa mi è rimasta come un rimprovero”. La riuscita del film rende vane le speculazioni sulla fedeltà o meno dei fatti raccontati rispetto agli episodi accaduti, questo è certo; ma resta interessante il fatto che anche Malle, come molti suoi colleghi, senta il bisogno, dopo anni di lavoro in altre direzioni, di aprirsi ai ricordi personali “difficili”, controversi. Ingmar Bergman confessa, nel suo libro “Lantema magica”, le sue simpatie giovanili per i nazisti; John Boorman, nel suo film Anni Quaranta, svela che per lui ragazzo la guerra era motivo di divertimento. Malle rivela il suo senso di colpevolezza, il malessere che si tira dietro da allora, senza cinismi e senza allegria, ritrovando anzi quella pena, e restituendoci tutto l'orrore della situazione Il miracolo di Arrivederci ragazzi (osannato dalla critica, premiato a Venezia col Leone d'oro: succede anche che i premi vadano al merito) è quello di essere terribilmente serio senza calcare la mano sul “coté” drammatico, senza urli e colpi di scena, senza effetti spettacolari. Di farci accettare l'ennesimo racconto sull'oppressione tedesca e sull'olocausto degli ebrei senza darci la sensazione di ripercorrere situazioni troppo conosciute, fin troppo raccontate. In uno stile dimesso, pulito, anzi depurato, Malle racconta in maniera quasi documentaristica, a volte, la vita di un collegio. È un susseguirsi di momenti insignificanti, all'apparenza: il dormitorio, la chiesa, il refettorio, l'aula, i giochi in cortile, ed il freddo (gli insegnanti in aula col pastrano), l'insufficienza di cibo (il ragazzo grasso che sviene in chiesa), la paura (i bombardamenti), la lontananza dei genitori. Tutto attraverso informazioni rapide e puntuali. Anche se si possono estrapolare sequenze particolari, il film non corre dichiaratamente verso il suo “clou” drammatico - la bellissima, articolata sequenza finale perché il suo significato è presente subito e in ogni momento del racconto, nella difficile frequentazione dei due ragazzi, l'ariano e l'ebreo, e nella loro sottile, ambigua, minacciosa “diversità”. La condizione dell'essere ebrei è messa lucida-mente a confronto con chi, ragazzo, non sa o non sa bene cosa questo significhi. La progressione narrativa, anzi drammaturgica, è abilissima, co-struita attraverso tocchi leggeri ma illuminanti, secondo quel processo di discrezione che regge tutto il film, che suggerisce tanto dicendo poco. Ecco Bonnet che, a tavola, non mangia la carne di maiale; ecco la lettera in cui la madre confida a Bonnet di non uscire di casa per prudenza (lettera sottratta dai compagni e da loro non compresa: “Ha la coscienza poco tranquilla, tua madre!” - gli dice, schernendolo, Julien); ecco l'imbarazza-to accenno del priore, quando confessa Julien: “Sia gentile col suo compagno”, che provoca la domanda senza risposta di Julien: “Perché, è ma-lato?”; ecco l'avviso sulla porta delle docce co-munali che interdice l'ingresso agli ebrei, la ca-rezza dei soldato tedesco, proprio a Bonnet, e la domanda di un compagno: “È vero che non fai la Comunione come gli altri?”; ecco Julien sorpren-dere Bonnet, di notte, che mormora strane pre-ghiere alla luce di due candele che poi nasconde; e finalmente la scoperta, quando Julien legge - riflesso capovolto nello specchio - il vero nome di Bonnet, che è Kippelstein. Le domande senza risposte, gli accenni non dei tutto capiti, i nomi che si devono decifrare di nascosto, tutto contri-buisce a creare un ambiente dominato dall'inde-cisione, dalla frustrazione, da una minaccia non definita, e dunque più inquietante. La condizione dell'ebreo è trattata in maniera “impressionistica”, non storicamente, considerata insomma da parte di Julien, con gli occhi di un undicenne. Così è visto il vecchio signore molestato al ristorante dai militi collaborazionisti, elegante, raffinato, con tanto di rosetta della Legione all'occhiello (certo, ora Julien lo sa, che è ebreo come li suo compagno Bonnet, ma proprio non riesce a capire dove sta la differenza; neppure quando l'uomo della Gestapo, nel finale, tenta di indottrinare lui e gli altri collegiali: “Non sono francesi, sono ebrei“ così risuonano le battute ai ristorante fra madre e figlio: “Siamo ebrei noi?” - “Ci vorrebbe anche questa!”; e alla risposta la signora aggiunge, per acquietare la sua coscienza borghese: “lo non ho niente contro di loro”, al che Bonnet sorride, in una di quelle sfumature significanti di cui li film è ricco. Tutto il racconto è retto del resto dallo sguardo di Julien, tutto è visto accadere senza bisogno di risonanze, di sottolineature, attraverso un procedimento di pura cronaca da cui ogni enfasi è esclusa. Lo sguardo, il guardare, il cercare, la curiosità: “La linea drammatica del film è la curiosità di Julien”, ha detto lo stesso Malle. La semplicità di un racconto tradizionale, dallo stile severo, è la chiave del film. Ma fino a che punto “semplice”? Tutto è calibrato perfettamente, fin nei minimi particolari. Il tono coloristico è un elemento portante: Malle ha chiesto al direttore della fotografia, lo svizzero Renato Berta, un colore quasi monocromatico, freddo, quasi sottoesposto, sui blu, neri, grigi. Stile cromatico che viene mantenuto in tutte le diverse situazioni del film, dentro il collegio e negli “esterni”, in questo inverno senza sole. C'è sempre nell'immagine una freddezza, o addirittura una ostilità, decisamente eloquente, cui si adeguano oggetti, vestiti, atteggiamenti (alla costumista il regista ha vietato il colore rosso, per esempio). Montaggio e movimenti di macchina sono pressoché inavvertibili, secondo i sani concetti dei cinema classico. Carrelli e panoramiche sono usati solo quando è strettamente indispensabile, per seguire funzionalmente gli spostamenti dei personaggi o per mettere in rilievo (il carrello circolare attorno ai due ragazzi quando leggono di nascosto, di notte) i momenti magici di sintonia, di comunanza al di là di ogni divisione. Domina il piano medio e il campo totale; rari i primi piani, e anche qui solo quando occorre mettere in evidenza ciò che conta. Come nell'episodio della lezione di pianoforte, quando Julien guarda dalla vetrata della porta-finestra, con invidia e con ammirazione, Bonnet che si muove con disinvoltura fra le note del “Momento musicale n. 2” di Schubert; atteggiamento che si ripete in aula quando Bonnet dà risposte brillanti, ed è ancora la stessa musica, in funzione ormai espressiva e non più diegetica, a chiosare il Primo Piano dello stesso Julien. Il “bianco-e-nero” del pianoforte è l'unico “commento” musicale del film, raro e sfilacciato, uno Schubert suonato da mani infantili; e si sa che Schubert è stato un compositore che ha fatto della semplicità e della “classicità” un imperativo centrale, un maestro dell'allusività e dei dettagli, proprio anche nei “Momenti musicali” - in cui si condensano felicemente stati d'animo - composti l'ultimo anno di una vita precocemente interrotta. Più “colorata” è per contro la musica che accompagna la proiezione in collegio di L'emigrante di Chaplin (il “Rondò capriccioso” per violino e piano di Saint-Saéns), un episodio importante e struggente, che è al tempo stesso omaggio al grande cinema, allusione all'esperienza appena conclusa in America da Malle, abbandono all'abbraccio totale di un ricordo personale che si fa ricordo intimo di ciascun spettatore (Charlot esce talvolta dai confini dello schermo improvvisato nel refettorio per campeggiare a tutto schermo), e drammatica prefigurazione dei campi di concentramento. All'inquadratura di Charlot e degli altri emigranti brutalmente sospinti e racchiusi dietro un canapo, molti ridono, Julien ha un mezzo sorriso, Bonnet rimane serio. Altra sequenza che rimanda a precisi significati grazie all'uso allusivo, anzi chiaramente metaforico, delle immagini è quella della “caccia al tesoro” nel bosco. Non a caso la situazione è descritta con particolare (e strana, nell'economia di un racconto fatto di accenni rapidi) insistenza: la fuga veloce di Julien e Bonnet fra gli alberi, seguiti in rapido carrello, quando sono scoperti e inseguiti dal ragazzi della squadra avversaria; la solitudine dei due ragazzi, quando cala la sera e il pericolo li avvolge; la loro marcia nel buio incipiente tra i rovi; la presenza sulla strada della camionetta tedesca. Luce, suoni, paesaggio, modi di inquadrare (dall'alto, per schiacciare i ragazzi negli anfratti tra le rocce, per es.) contribuiscono a fare di questa sequenza angosciosa, appena un po' compiaciuta (l'unica, direi, dove la mano dei regista “si sente”) una trasposizione simbolica della, drammatica situazione centrale del racconto. Tra le raffinatezze dell'apparente semplicità della regia ci sono simmetrie come quella costituita da due atteggiamenti diversi rispetto all'arresto di Bonnet. Nel dormitorio, quando Bonnet mette insieme le sue cose per andarsene col tedesco che l'aspetta sulla soglia, Julien (che con il suo sguardo l'aveva indicato all'uomo della Gestapo) è consolato dalla stessa vittima: “Non prendertela, mi avrebbe scoperto lo stesso”; e poi in cortile, quando Julien si avvede che Joseph, lo zoppo, ha fatto la spia, si sente dire da quest'ultimo, ancora come consolazione ma di segno opposto: “Non prendertela, sono solo ebrei! ”. Personaggio oltremodo interessante, questo Joseph, che richiama inevitabilmente un altro proletario collaborazionista, Lacombe Lucien (la matrice, ci dice Malle, è comune, risiede nei suoi ricordi). Anche lui è da compiangere, più che da condannare. Non si tratta tanto, da parte di Malle, di assolvere tutti o addirittura di stornare la condanna morale dai nemici “storici” (i tedeschi, i collaborazionisti) ai colpevoli camuffati (i borghesi: vedi la descrizione impietosa dei genitori ricchi dei collegiali), quanto di rifiuto della schematizzazione. È sempre pericoloso semplificare - ha detto lo stesso Malle - Le situazioni e i rapporti umani sono complessi”. Il priore del collegio, per esempio, che nasconde gli ebrei e i resistenti, che ha parole durissime contro le ricchezze e gli egoismi, che esorta i ragazzi a dividere il contenuto dei pacchi ricevuti da casa con chi non ha niente, chiede di pregare non solo per le vittime ma anche per i carnefici, butta sulla strada Joseph quando sa benissimo che a monte dei comportamento del ladruncolo e borsanerista c'è il tornaconto dei ragazzi che trafficano con lui, e rifiuta l'ostia consacrata a Bonnet. Per rispetto alla fede dei ragazzo o per non partecipare (contaminare) l'Eucarestia a un non credente? “Mi sono sempre interessato a personaggi che si trovano in una situazione in cui c'è qualcosa che li travolge, che li fa deviare dal loro cammino - dice il regista, collegando così la sua ultima fatica agli altri suoi film - che li obbliga a porsi delle domande, cosa che le persone normali fanno assai raramente nella loro vita”. Nel suo eclettismo, nel suo lavoro svolto al di qua e al di là dell'Oceano, Malle continua in fondo lo stesso discorso. Già nel 1976, nella citata intervista apparsa sul “Castoro”, diceva: “I miei personaggi hanno un'aria di famiglia perché hanno stabilito un dialogo con la morte... Ho fatto molti film con adolescenti, con bambini come personaggi centrali. Credo sia perché nei film di finzione scelgo sempre personaggi in crisi”. Sostanzialmente, al contrario di quei registi che coltivano l'effimero e fanno professione di evasività, che fanno cinema sul cinema (il Chaplin citato in Arrivederci ragazzi è tutt'altro che un ghirigoro scritto sulle ali di una farfalla), che costruiscono insomma sull'evanescenza e sul disimpegno, Malle parla di uomini, di pensieri e di anime. Si potrebbe dire di lui col Berni, rivolti ai suoi colleghi del disimpegno: “Ei dice cose, e voi dite parole”. Autore critica:Ermanno Comuzio Fonte critica:Cineforum n. 271 Data critica: 1-2/1988 Critica 3:Il regista ha vissuto in prima persona la vicenda raccontata che ha marcato il suo ingresso nell'età adulta. Seguendo il percorso di Julien, dal pianto iniziale in stazione fino al consapevole sguardo finale verso il compagno che si allontana per sempre, il film si articola sul percorso di crescita del protagonista. Questi impara a diventare adulto, confrontandosi con le difficoltà della vita e abbandonando gradualmente l'atteggiamento remissivo e infantile a vantaggio di una maggiore consapevolezza di sé e della complessità della vita. Non appare quindi casuale che la figura della madre risulti centrale in tutta la prima parte, dal pianto già citato alla scena della lettera in cui sembra contare di più il profumo delle parole scritte, in un continuo contraltare con il fratello maggiore ormai smaliziato, che fa risaltare il bisogno di affetto e rassicurazione materna sentito da Julien, cui manca molto la figura paterna. La scoperta del mondo avviene fuori dal guscio familiare, in un collegio che traduce la valenza formativa della scuola, intesa in un'accezione ampia. Non sono infatti solo le lezioni di matematica, di letteratura o di storia a formare la personalità e il pensiero del protagonista, ma piuttosto le riflessioni morali e sociali di padre Jean o degli altri insegnanti e, ancor più, le esperienze dirette che lo portano a confrontarsi da un lato con le necessità imposte dalla guerra, dall'altro con le curiosità tipiche dell'età. La paura nel rifugio antiaereo, il desiderio verso l'insegnante di musica, la gelosia nei confronti di chi appare più abile e dotato, la passione verso la letteratura e il mistero: in modo contraddittorio, ma sempre vissuto con intensità, Julien vive la propria età di passaggio, trasformandosi lentamente. Centrale, in questa trasformazione, è l'amicizia che si cementa gradualmente con Jean Bonnet. Dall'iniziale diffidenza e ostilità alla completa armonia e reciprocità, ben simboleggiata dalla sonata a quattro mani sul pianoforte che in precedenza era stato uno dei simboli della divisione tra i due, Julien scopre attraverso l'amico l'importanza di non essere superficiali e la bellezza di un sentimento che permette di condividere passioni e paure, segreti e aspirazioni. Attraverso il gioco, i due amici esperiscono il piacere della spensieratezza, ma non dimenticano mai le difficoltà della vita, come accade nella sequenza fondamentale della caccia al tesoro. Il bosco, il buio, la prigionia di Jean, l'incontro con i soldati tedeschi preludono alla tragedia finale, anche se proprio in questa sequenza Julien diventa finalmente decisivo e sicuro di sé. La dimensione personale e la costruzione della propria individualità non possono evitare di confrontarsi con il contesto storico e sociale circostante. La guerra non è quindi solo uno sfondo lontano, anche se lungo buona parte del film sembra estranea all'età dei protagonisti, ma la dimensione disumana che scatena conflitti non soltanto sul fronte. Il livore di Joseph che si rivale sui compagni che spesso lo hanno preso in giro per il suo handicap fisico e per le sue origini umili, la durezza dei tedeschi e, soprattutto, la disumanità dell'antisemitismo diventano i paradigmi di valori fondati sull'odio, sulla divisione, sul disprezzo. Pur essendo questi agli antipodi dell'amicizia tra due preadolescenti, il film sembra ricordarci che si tratta di presenze con cui è necessario fare i conti. Non solo durante una guerra. Autore critica:Michele Marangi Fonte critica:Aiace Torino Data critica: Mi pare fosse Swift che diceva che le introduzioni equivalevano a dei «parafulmini», che appunto evitavano o attutivano l’esperienza bruciante della lettura. L’introduzione di un libro, di un film... rischia sempre di diventare una paternalistica sequela di “istruzioni per l’uso”. Allora è forse più utile cercare di disegnare il territorio in cui il film di Malle si inserisce, anche alla luce del confronto ineludibile con l’interdizione adorniana ripresa recentemente da Serge Daney in relazione all’immagine cinematografica, e da Jean-Luc Nancy riguardo all’immagine tout court. Nancy rovescia Adorno, «perché solo nella poesia si può dire ciò che altrimenti sfugge a ogni descrizione» , e al termine di un percorso tanto complesso quanto fecondo afferma il valore della rappresentazione che «si interdice da sé, piuttosto che essere proibita o ostacolata. Essa è il soggetto del suo ritrarsi, della sua intercettazione o della sua decezione. Invece di gettarsi fuori di sé e della presenza nel furore dell’atto, essa scava e trattiene la presenza in fondo a sé. Così è la rappresentazione che non vuol essere una rappresentazione dei “campi”, ma che mette in gioco, come tale, la loro (ir)rappresentabilità» . Daney, in un movimento solo apparentemente contraddittorio a quello di Nancy, ma che è forse ad esso complementare, “prolunga” Adorno e pensa la Shoah come un punto di rottura della rappresentazione dell’uomo per l’uomo, come punto di non ritorno che bloccava il racconto, la biografia della specie. Il film di Alain Resnais, Notte e nebbia, aveva appunto «l’onestà di prendere atto dell’impossibilità di raccontare, l’onestà di riconoscere un punto di arresto nello svolgimento della Storia, dove il racconto si paralizza o gira a vuoto. Non si dovrebbe tanto parlare di amnesia o di rimozione, quanto piuttosto di forclusione, una parola di cui solo più tardi apprenderò la definizione lacaniana: ritorno allucinatorio di ciò su cui non è stato possibile operare un giudizio di realtà. In altri termini: poiché i registi non hanno filmato a suo tempo la politica di Vichy, il loro compito, cinquant’anni più tardi, non è quello di ottenere un riscatto immaginario a colpi di Arrivederci, ragazzi ma quello di tracciare il ritratto attuale di questo buon popolo francese che, dal 1940 al 1942, retata di Vel’ d’Hiv compresa, non ha battuto ciglio. Essendo il cinema un arte del presente, i suoi rimorsi non hanno alcun valore. Per questo motivo lo spettatore che fui davanti a Notte e nebbia e il regista che con questo film tentò di mostrare l’irrappresentabile, erano legati da una simmetria complice. Da un lato lo spettatore che è improvvisamente “assente dal suo posto” e si blocca mentre il film va avanti. Dall’altro il film che invece di continuare ripiega su se stesso, si blocca su un’immagine provvisoriamente definitiva che permette al soggetto-spettatore di continuare a credere al cinema e al soggetto-cittadino di continuare a vivere la sua vita. Fermo sullo spettatore, fermo sull’immagine: il cinema è entrato nell’età adulta. La sfera del visibile ha cessato di essere disponibile nella sua interezza: ci sono ora assenze e buchi, vuoti necessari e pieni superflui, immagini per sempre assenti e sguardi venuti meno per sempre. Spettacolo e spettatore cessano di rinviarsi tutte le palle». Discorso, quello di Daney, ancora più importante oggi in cui la memoria sembra essere totalmente archiviabile (in un’accezione della parola “archivio” molto diversa da quella di Foucault), perché se il paradosso che consisteva nel mostrare che vi era qualcosa che non si poteva mostrare è stato la sfida di certo cinema - in un legame irriducibile di etica ed estetica -, di fatto l’epoca televisiva e della rete si è occupata piuttosto di mostrare tutto il visibile, o di far passare l’idea che tutto il visibile è mostrabile. Infatti: «se l’umanità non prendesse la Shoah come metafora di ciò di cui fu ed è tuttora capace, lo sterminio degli ebrei resterebbe una storia ebraica, poi - per ordine decrescente di responsabilità, per metonimia - una storia molto tedesca, abbastanza francese, araba solo di riflesso, molto poco danese, e quasi per niente bulgara. E proprio alle esigenze della metafora rispondeva, nel cinema, l’impegno moderno di decretare il fermo-immagine e l’inibizione della fiction. Si trattava di imparare a raccontare diversamente un’altra storia in cui la specie umana fosse il solo personaggio e la prima anti-diva» . Mi piace pensare che sia lo spettatore che ha da vedere il film di Malle a decidere quanto e come esso si confronti con questi problemi. Buona visione. “Grida dal silenzio, la storia dimenticata del genocidio degli armeni”, è un documentario realizzato nel 2005 dalla regista Valeria Parisi, con la consulenza storica di Marcello Flores e Pietro Kuciukian. Il documentario cerca le cause dell’oblio e della rimozione di quel drammatico evento che ebbe inizio nell’aprile del 1915; un milione e mezzo di morti dei quali, dopo la fine della “Grande Guerra” si tentò di cancellare la memoria. Una fra le tante ferite della Storia. Il documentario alterna rari filmati, alcuni dei quali provenienti dagli archivi russi, con interviste ad autorevoli studiosi internazionali affrontando anche il tema dell’identità del popolo armeno attraverso immagini inedite ed incontri con alcuni dei suoi più celebri rappresentanti, come Charles Aznavour ed il cantante rock Serj Tankian.. L’argomento è estremamente attuale perché il mancato riconoscimento del genocidio da parte del governo turco è uno dei nodi che impedisce l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea.

V.V

 
Il sito Zatik.com è curato dall'Arch. Vahé Vartanian e dal Dott. Enzo Mainardi;
© Zatik - Powered by Akmé S.r.l.