Zatik consiglia:
Iniziativa Culturale:

 

 

06 05 19 - Pehlivanian, un tradizionalismo di alta professionalità e di gusto sicuro.
dal Mattino di Napoli
Pehlivanian, armeno nato a Beirut e naturalizzato statunitense, già applaudito dal pubblico del San Carlo nel bel concerto russo del febbraio scorso, ieri è stata la volta dell’«Otello»: ed è stata anche la sua prima volta nella direzione di un’opera in un teatro italiano. Visti i risultati, di prime volte come questa se ne vorrebbero tutte le sere. Quella di «Otello» non è una partitura sinfonica nel senso attribuito a tale parola dai wagneristi e progressisti di fine Ottocento. In essa, l’interazione tra orchestra e canto passa piuttosto da Parigi, ma a ben vedere le sue radici affondano in strati ben più remoti e sempre presenti nella coscienza drammaturgica verdiana. In quel «Don Giovanni» letto e riletto fin dagli anni giovanili e senza il quale non avremmo «Rigoletto», «La traviata», «Un ballo in maschera», e che fa di Verdi (e non di Rossini) il compositore italiano più intimamente mozartiano dell’Ottocento. Né avremmo, in questo Verdi supremo, quell’invenzione strumentale così vigile, varia, e vibratile, così ricca di significati autonomi e tuttavia sempre complementari alla parola intonata: parafrasando Auden,
messaggi privati e intriganti che la buca orchestrale invia al palcoscenico. Dice già molto, sull’esito di questa prima volta di Pehlivanian, il fatto di averci suscitato tali riflessioni. L’andazzo di molti direttori della recente generazione, «sinfonizzare» il Verdi della tarda maturità, è stato felicemente evitato dal Nostro, il quale semmai sembra chiamare il mozartiano Ciaikovskij a suo mediatore e mentore per la finezza e l’estrosità del fraseggio, la marezzatura dei colori e delle modulazioni dinamiche, l’impennata icastica e mai violenta delle sottolineature drammatiche. Con splendide intuizioni, come il terzetto di Cassio, Jago e Otello, pagina magica ove, parlando per paradosso, Verdi si fa imitatore di Stravinskij; o come il famoso passo dei contrabbassi che, nel quarto atto, introduce la sortita di Otello. Ma la presenza di Pehlivanian si risolveva in termini positivi anche per il controllo delle voci, come si evince dall’esito eccellente del concertato del terzo atto.
Più arduo il compito di arginare le esuberanze e le tentazioni veristiche dei due antagonisti, soprattutto trattandosi d’interpreti autorevoli quali il tenore Vladimir Galouzine e il baritono Carlo Guelfi. La provata esperienza di quest’ultimo nei panni di Jago compensava l’incerta prestazione del primo, la cui irruente potenza vocale risultava compromessa dalla precaria intelligibilità del testo cantato e da qualche scarto d’intonazione. Elegante e gradevole come si conviene il Cassio di Alessandro Liberatore, adeguati Luca Casalin, Antonio De Gobbi, Lorenzo Muzzi, Carmine Durante, impegnati nelle parti di fianco. Come Desdemona, Fiorenza Cedolins ha superato bene la prova del duetto nel primo atto, e meglio la capitale scena che nel quarto la vede impegnata in modo tanto totalizzante e in un clima di crescente intensità tragica, guadagnandosi gli applausi del pubblico. Gli era a fianco, efficace Emilia, Rossana Rinaldi. Le pagine corali, talora fascinose, strane e difficili come il «Fuoco di gioia» del primo atto, sono state valorosamente affrontate del complesso sancarliano diretto da Marco Ozbic. L’allestimento dell’opera risaliva ad anni fa ed era dovuto alla regia di Pier Francesco Maestrini con Mauro Carosi scenografo e Odette Nicoletti figurinista.
Spettacolo d’impostazione decisamente tradizionalistica e con pretese di filologia storica e ambientale, ma di un tradizionalismo di alta professionalità e di gusto sicuro.

V.V

 
Il sito Zatik.com è curato dall'Arch. Vahé Vartanian e dal Dott. Enzo Mainardi;
© Zatik - Powered by Akmé S.r.l.