Zatik consiglia:
Iniziativa Culturale:

 

 

050411 - Gli armeni, memoria senza frontiere
Le figlie e i figli dell'esilio
Gli armeni, memoria senza frontiere
All'origine di ogni diaspora, c'è un avvenimento traumatico. Gli armeni subirono il primo genocidio del XX secolo. Preparato dai massacri del 1894-1896, verrà perpetrato durante la prima guerra mondiale, nel 1915, da miliziani del partito turco Unione e Progresso, per ordine dei loro dirigenti e con la complicità di ufficiali tedeschi che inquadravano l'esercito. I due terzi degli armeni di Turchia - circa 1,2 milioni - saranno sterminati. Novant'anni dopo, se 3 milioni vivono nella loro Repubblica indipendente, circa il doppio è disperso nel mondo: in Medioriente, ma anche in Russia, in Europa, negli Stati uniti... È questa memoria d'esilio che richiama lo scrittore Jean-Jacques Varoujan.

Jean-Jacques Varoujan
Dobbiamo cambiare i nostri occhi, raccomandava Sofocle. Ma come fare davanti a certi scenari? Una semplice serie di ritratti ci fa sprofondare nel dolore. Io mi rivedo là, che avevo sette-otto anni, e mi dispero.
Mai avrei voluto che morisse, che scomparisse, che svanisse nel tempo il ragazzino dai calzoni corti che ero. Mai potrò accettare che la cagnetta ai piedi della nonna abbia visto ciò che ha visto, senza avere la forza di difendersi, di abbaiare dopo che i suoi padroni erano stati uccisi. Mai, si dice il figlio dell'esule, vedrò ciò che non ho visto, ciò di cui sono stato privato e che conosco solo attraverso i «si racconta», «si ricorda», «si piange, «si canta».
Dov'è l'errore? Dove il «quid» terribile? In queste strade, in ques ti alberi, in queste tombe rivoltate, in questa folla che manifesta un 24 aprile per gridare alto e forte: essi sono morti affinché noi viviamo! E il fotografo aggiunge: affinché non dimentichiamo. Ma possiamo dimenticare? Come dimenticare gli avvenimenti, spesso tragici, a volte prodotti da crimini, che hanno condotto un popolo intero ad abbandonare la sua terra? E, di nuovo, questa incomprensione, questa domanda lancinante: perché io? Dov'è il mio errore? Cosa non avrei dovuto fare, cosa avrei dovuto fare? Tacere, sfigurarmi, rinnegarmi?
E se le cause dei genocidi, delle esecuzioni sommarie, delle proscrizioni, dei massacri del 1915 nell'Anatolia orientale, fossero dovute alla bellezza insolente della mia lingua, così diversa, alla bellezza inviolabile del mio paese dove i sorrisi, le danze, i canti, le preghiere a tanti cristi sulla croce sono vecchi di secoli. Il mio desiderio di libertà, pensa ancora l'esule, la sete di poter vivere la mia fede hanno spinto i barbari al peggio, giorno dopo giorno, fino allo sterminio e alla distruzione di tutto ciò che non è tadjik - o «rosso», oppure ariano - di tutto ciò che poteva testimoniare...
Dopo aver massacrato quasi tutti gli «infedeli» e aver spinto i superstiti alla fuga, l'occupante turco, l'occupante tedesco, l'occupante cinese hanno tolto ai superstiti la felicità naturale di essere armeni, ebrei, o tibetani. Una felicità, una gioia che non ritorneranno mai del tutto perché essi sono ormai diversi nel paese nuovo dove vivono.
Seconda patria, si dice, quasi si avessero due padri. Ovunque egli sia, qualunque cosa egli faccia, o veda succedere in sua presenza, l'esule rivolge lo sguardo verso il suo vissuto passato, di prima della sua morte morale. Si nutre delle immagini che non può dimenticare, della fotografia dei suoi, anche se queste immagini, queste fotografie sono, nella sua testa, la sua coscienza sopita.
Portiamo forse la nostra patria sotto la suola delle scarpe? Esclama Danton al quale offrivano l'esilio volontario per sfuggire alla morte.
Sì signore, sì cittadino, sì compagno, si porta via qualcosa. Cosa?
Una realtà che, alla lunga, si trasforma in illusione, in miraggio.
In follia. E raccontiamo, guardiamo ciò che resta della casa, della chiesa, della strada, per sfuggire a una morte ancora peggiore.
Diremo forse alle spoglie dei nostri padri: alzatevi e seguiteci in terra straniera! In passato più di un romano preferì la morte all'esilio. Più di un proscritto visse come un morto in una terra di ricambio. Mio nonno Garabed non parlò più dopo essere approdato in Francia, e non l'ho quasi mai visto sorridere. Sempre chiuso in se stesso. Piegato in due. Il suo leitmotiv interiore, il suo tic-tac quotidiano: che faccio qui? Qui, dove, all'inizio, per ottenere un uovo dal droghiere di Alforville, a corto di vocabolario, ho fatto «coccodé... coccodé»! Che cosa rimane (dei nostri amori) [Que reste-t-il (des nos amours) cantava Charles Trenet],o quando si vive lontano dal proprio paese, dai propri morti, dal proprio villaggio, dalle proprie montagne, dalle proprie galline e dai propri conigli? La memoria. Salvo, come capita, quando non è la propria che ritorna. Dopo un certo tempo, occorre ammettere che questa memoria è fatta più o meno di racconti, di storie ripetute, vissute in sogni rimasti oscuri, più o meno inventate anche, abbellite o peggiorate, di leggende, forse di affabulazioni ... In realtà rimangono delle immagini. Alcune fotografie salvate non si sa come, ritrovate in una vecchia valigia rimasta chiusa nell'attesa del rientro in paese, si credeva. Soprattutto quelle fatte dopo, nei luoghi dell'esilio, di gente sradicata, a volte sconosciuta anche se, sul verso, si legge un nome che non ci dice niente, un nome muto.
Rimane l'occhio che continua a cercare, senza riuscire sempre a tenersi aderente a una realtà che non è la sua - e da dove viene il sorriso che a volte vi si legge? Vi sono lutti ai quali si sopravvive solo sorridendo. Non si sa più bene - perché la vista si oscura guardandoli - se si vede uno zio, una nonna o un amichetto... Strappati alla loro identità, non sono più l'uomo o la donna - forse, l'essere?
- che non si può uccidere, neppure a colpi di scimitarra?
Che cosa rimane (dei nostri amori)? Nel migliore dei casi, avendo perso ogni appartenenza a una identità riconosciuta, repertoriata, ci riavviciniamo a quanto rimane in noi di essenziale, spogliato di tutti gli orpelli, dei segni, delle etichette per cui non siamo più nessuno, come eravamo il primo giorno, prima di sapere, prima di ubbidire a regole stabilite, di subire etichette e timbri.
Ma i giovani germogli la pensano diversamente.
Quando l'esule evoca il «paese» in presenza dei figli - «Che cos'è, questo paese?» - risponde immediatamente il figlio. E il padre resta senza parole, il respiro sospeso. Inchiodato. - «Non siamo a Kharpet!» rincara la figlia.
- «Zitta, o ti do una sberla» (letteralmente: ti mangi una sberla).
- «Ma io sono francese!», protesta una giovane armena in un film di Isabelle Ouzounian, Le Jardin de Khorkom.
Ecco il castigo più terribile che può subire un esule, il grido più tremendo di una figlia di esiliato - una scheggia che si fissa nella carne, una morte senza crimine, senza nessuno che possa dare il colpo di grazia. E tuttavia è un'altra vita che si esprime. Un'altra vita che sta nascendo. Una nascita mentre muore una parte (quale?) di un cuore ferito.
Cosa rimane dell'uomo che sei quando ti ritrovi in un campo profughi, in una tale provvisorietà, un tale anonimato? O in una città, un quartiere, una strada di cui non sai niente, dove non conosci anima viva, mentre sei tu stesso una anima morta? Dove nessuno parla la tua lingua, in una casa vuota, sotto un cielo di un azzurro diverso - dove soltanto gli uccelli, che non conoscono la differenza tra gli uomini, cantano - tu credi - per portare notizie
dal paese...
Qual è questo altrove che il suo sguardo vuoto cerca, nascosto negli occhi smarriti, neri, accecati? Specchio accusatore? Supplica di una vittima? Non solo il suo passato egli cerca, i vecchi, il viso e le parole degli antenati, ma anche e soprattutto i bambini che si sono dovuti abbandonare, uccisi sul posto o portati via da gentaglia, prima di fare le valigie, i corpi irriconoscibili che il mare restituisce, onda dopo onda, o portati via dalle acque tempestose dell'Eufrate.
Tutti gli esuli del mondo hanno le stesse immagini interiori, riflessi di un paese che fu loro. Lontano dalla sua terra, esiliato da se stesso, un uomo diventa altro. Quasi nulla. Qual è il suo futuro?
A volte, spesso, una vita confortevole, una buona posizione, furtivi piaceri, ma il futuro resta il suo passato, la sua ricchezza ciò che egli ha perso. Straniero in terra straniera, è diventato straniero nel suo paese, se riesce a ritornare nel suo paese, da turista. In più egli, per tutta la vita, prova un senso di colpa che certamente non merita. Per quale ragione, si chiede senza tregua.
I barbari ottomani odiavano i cristiani che avevano sottomesso, perché con il loro silenzio, la loro vita segreta e anche il loro sorriso, questi gli dimostravano costantemente che erano loro i barbari, barbari ottomani o barbari nazisti, costringendoli a smascherarsi, a mostrarsi quali erano. Per rimanere in sintonia con Mustafa Kemal... Noi «armenizzeremo» gli ebrei, annunciava Hitler nel 1923, in un incontro nella sala interna di un caffè a Vienna. Era il benvenuto ai malfattori.
Un ebreo, un armeno, un greco di Turchia, un tibetano non può vivere un solo giorno senza sentire, anche furtivamente, senza che gli salti alla mente chi è, anche se non si chiede, al momento, cosa significhi essere armeno, ebreo o tibetano. Per lottare contro la triste realtà, basta che si immerga, ogni giorno prima di morire, nelle pagine del grande libro nel quale egli vive, nelle sue immagini spesso prive di leggenda. Ogni giorno per non morire. Basta che egli ricordi uno dei suoi che spirò parlando una lingua, la sua, che nessuno intorno a lui ha potuto capire. Perché l'ultima parola pronunciata da Cechov fu: «Ich sterbe» (io muoio)?
Come muoiono gli esuli? avrebbe potuto chiedersi Tolstoj.
Sul viso dei bambini, dei vecchi, delle donne che sembrano dei dimenticati, non si legge soltanto il desiderio di vivere ma il fatto che essi stessi sono la vita. Perché può darsi che la vita sia qui. E non solo quella odierna e non solo quella che conduciamo, quella che ci fa dire, un po' scioccamente, a ogni momento: è la vita! Qui stanno le vere ragioni per credere, senza sapere esattamente, ma non importa, in che cosa, a che cosa. Questa eternità dell'esule, la sua universalità, si vedono ovunque e talvolta nelle immagini rapprese, materiali. Una strada di Aleppo, la via Baron, dove arrivò il tremendo telegramma di Taalat che ordinava lo sterminio di un intero popolo. Nel Karabach, quando si seppelliscono i vecchi sui quali ci si inchina un'ultima volta. In che direzione guardano queste donne abbracciate, al confine, giunte da un lato, nate nell'altro?
Per rimanere nel cuore del Mistero, rimarrà sempre l'essere: «L'uomo di poco inferiore a Dio», dice David (salmo 8.5). L'essere, nato prima di ogni cosa, di molto superiore a Dio. Rimarrà per sempre l'esule che, tra l'uomo e Dio, non potendo che disperare sia dell'uno sia dell'altro, erra su una via crucis che non è di questo mondo, dove ambedue lo hanno abbandonato. Perché?
Tutto quello che sa viene dal suo essere esule. Tutto quello che non sa viene dal suo essere esule. Questa la sua condizione, la sua regola di vita. Egli si nutre esclusivamente di passioni morte. (Traduzione M.G.G.)
[//../../immagini/imm_cdro/top.gif]
note:
* Drammaturgo e saggista, autore, fra l'altro di A plus (L'Harmattan, 2003).


V.V

 
Il sito Zatik.com è curato dall'Arch. Vahé Vartanian e dal Dott. Enzo Mainardi;
© Zatik - Powered by Akmé S.r.l.