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E’ patrimonio di tutti la memoria dei genocidi
Di Anna Foa ( L’ Avvenire del 2 sett. 2004 )

Tutelare la memoria: è questa una tema molto presente nella riflessione di noi tutti.

Perché la memoria collettiva , ancora più di quella individuale, ha un percorso tortuoso. Sopratutto la memoria dei genocidi.
Il prossimo Aprile ricorderemo i novant’anni dal genocidio del popolo Armeno, primo genocidio del Novecento,.
Di religione cristiana, nell’Ottocento gli armeni rappresentano nell’impero ottomano una minoranza consistente di circa due milioni di persone. Alla fine del secolo, con la dissoluzione dell’Impero e la crescita di un movimento nazionalistico armeno, un’ondata di pogrom si scatena contro di loro. La persecuzione si acuisce dopo la rivoluzione del 1908, con la presa del potere dei Giovani Turchi, la cui ala più nazionalistica persegue l’obiettivo di rendere il giovane Stato omogeneo dal punto di vista etico e religioso.

Nel 1914 in guerra, le persecuzioni divengono genocidio: inizialmente sono gli uomini a venire arrestati e massacrati, subito dopo donne, vecchi e bambini vengono deportati a piedi verso zone desertiche e muoiono di stenti e violenze. Il bilancio è di circa un milione e mezzo di morti. Solo mezzo milione di armeni riescono a sfuggire al genocidio rifugiandosi nella vicina Russia e in Europa. Questi sono i fatti, ricostruiti dagli storici. Di questo genocidio tanto l’Armenia, nata dalla dissoluzione dell’Urss, quanto la diaspora armena, tuttora numerosa e vivace in Europa e negli Stati uniti, conservano la memoria.

Una memoria, però non condivisa, che trova un difficile percorso nella coscienza del resto del mondo. In primo luogo, in Turchia, dove- è cosa ben nota- non solo i giovani ma anche gli intellettuali e l’opinione pubblica rifiutano di riconoscere il genocidio. Un atteggiamento, bisogna aggiungere, che si va ora modificando, anche in seguito alla prospettiva dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europa, come scriveva su questo giornale qualche settimana fa lo storico turco Taner Akram, autore di libri che denunciano apertamente il genocidio. Una presa di coscienza tuttavia ancora insufficiente, e affidata soltanto sgli storici di professione. E’ come se nel 1970 Willy Brandt , invece inginocchiarsi nell’ ghetto di Varsavia, avesse dato vita ad un dibattito accademico sullo sterminio degli ebrei.

Certo, si potrebbe dire, è solo l’inizio. Ma perché questo persistente rifiuto di un riconoscimento di responsabilità, l’unico passo che consenta davvero la riconciliazione e il superamento del trauma? La risposta non è univoca. Da una parte, pesa certamente la volontà di ribadire la continuità con lo spirito nazionalista che ha caratterizzato la nascita dello Stato turco. Dall’altra, possiamo forse ipotizzare che vi sia nel mondo islamico, rispetto all’Occidente cristiano, una maggiore difficoltà nell’affrontare il riconoscimento delle colpe e la riconciliazione.

Ma rendere anche in Occidente arduo il percorso della memoria del genocidio armeno sono altri ostacoli:ç da una parte, problema di Realpolitik, cioè la tutela del rapporto dell’Occidente con lo Stato turco , il suo maggiore alleato in quell’area; dall’altra, l’ineludibile confronto tra il genocidio del popolo armeno e quella del popolo ebraico, La Shoah. Un confronto difficile per molti, ebrei e non ebrei, che spinge se non a negare perlomeno a passare sotto un imbarazzato silenzio questo tragico precedente, che pur ispirò Hitler, che proprio dal genocidio armeno trasse l’insegnamento che era possibile sterminare un popolo nel silenzio del mondo. La sottolineatura della specificità della Shoah, quella che viene definita come la sua “ unicità”, ha avuto in passato un ruolo importante nel distinguere lo sterminio sistematico degli ebrei dalla pur enormi atrocità della guerra. Ma oggi essa rappresenta soltanto una inutile barriera difensiva. Inutile perché la memoria della Shoah, al di là degli episodi di negazione o oblio, è diventata ormai un elemento fondante della nostra cultura e della nostra identità. E proprio per questo è ora di usarla, confrontando differenze e somiglianze, per aprirci alla percezione degli altri orrori.
E non solo fra gli addetti ai lavori, ma anche nella coscienza comune.