Il
Laboratorio Armeno
Il 24 aprile, come ogni anno, gli Armeni hanno celebrato la data
iniziale del genocidio del 1915. Stavolta in concomitanza con l'uscita
in Italia del film Ararat di Atom Egoyan e di due libri di buon
livello. Il primo, La vera storia del Mussa Dagh (Guerini e Associati,
pp. 158, € 14) ricostruisce con documenti inediti la celebre
resistenza - già oggetto del romanzo di Franz Werfel -, a
cura di Flavia Amabile e Marco Tosatti, che già un paio d'anni
fa avevano tracciato nei Baroni di Aleppo la storia di una famiglia
armena, proprietaria del mitico e ahimè decaduto albergo
Baron; il secondo, più generale, è la traduzione di
Yves Ternon Gli Armeni. 1915-1916: il genocidio dimenticato (Rizzoli,
pp. 430, € 20). Quest'ultimo lavoro offre una panoramica completa
del genocidio, inquadrato in una prospettiva della questione armena
dalle origini fino alla crisi ottocentesca dell'impero ottomano.
Il resoconto dei tragici eventi e il rinvio all'incontestabile documentazione
(consultabile, aggiungiamo, presso l'eccellente sito www.armenian-genocide.org)
hanno indubbi meriti divulgativi, malgrado il tono troppo passionale.
La ricostruzione dello stato attuale del problema storiografico
e la polemica contro il persistente negazionismo turco avrebbe potuto
avvalersi di un maggior approfondimento, per esempio contestualizzandolo
alla discussione sull'unicità dell'Olocausto e all'uso politico
della storia fatto, in singolare accordo, dagli alleati Turchia
e Israele, interessati per diversi motivi a minimizzare l'esemplarità
e l'ampiezza dello sterminio degli Armeni, che pure fu incontestabilmente
il modello tecnico-organizzativo di quello ebraico. Sarebbe così
apparso più chiaro il ruolo chiave in tale operazione di
Bernard Lewis, arabista d'assalto, turcofilo e assai presente sulla
scena (parlata e segreta) della guerra infinita al terrorismo.
L'eccidio
degli Armeni cominciò alla grande nella seconda metà
del XIX secolo, come risposta identitaria e geopolitica alla dissoluzione
dell'impero ottomano e alle manovre delle grandi potenze imperialistiche
europee che miravano a dividersene le spoglie, proponendosi a protettori
delle minoranze cristiane (in primo luogo Greci, Bulgari e Armeni),
con il solo effetto di farne le prime facili vittime della resistenza
ottomana. Il colpo di stato con cui il sultano Abd-ül-Hamid
annullò le concessioni costituzionali bloccando le riforme
fu il tentativo di contrastare la galoppante erosione dei possedimenti
europei ed egei da parte dei movimenti indipendentisti greci e balcanici,
supportati, in fraterna concorrenza, da francesi e inglesi, e l'avanzata
della Russia zarista nel Caucaso. Nella misura in cui tale resistenza
è fallimentare, il dispotismo del Sultano si sfoga contro
i sudditi cristiani, fino allora tollerati e integrati, tanto più
che una massa crescente di profughi turchi si riversa in Anatolia
in seguito alla liberazione dei Balcani e di Creta. Nella perversa
relazione fra colonialismo europeo e repressione turca delle minoranze
svolse il suo ruolo anche l'Italia: infatti la resistenza turca
alla conquista della Libia (1911) fu organizzata da Enver, che diventerà
successivamente il fautore dell'alleanza turco-tedesca nella I Guerra
mondiale, il principale massacratore (insieme a Talaat e Nazim)
degli Armeni e infine il profeta del movimento pan-turanico, prima
alleato poi nemico dei bolscevichi nell'Asia centrale.
Tuttavia
le stragi del 1895-1896, che sembrano costituire il primo atto del
genocidio (200-300.000 uccisi), si svolgono con un meccanismo diverso:
Abd-ül-Hamid, infatti, mira a preservare con il terrore una
struttura statale in cui gli Armeni restino sottomessi e utilizzabili
(secondo la logica islamica del millet, della comunità ebraica
o cristiana tollerata e subalterna), mentre i suoi antagonisti e
successori, i «Giovani Turchi» che prendono il potere
nel 1908 e gestiranno lo sterminio del 1915-1916, impiegano le stesse
tattiche omicide su scala assai maggiore e allo scopo di creare
un nuovo sistema, in cui tali minoranze non abbiano più spazio.
Insomma, il salto dalla strage esemplare al genocidio moderno, legittimato
da una mistica nazionalista e razziale. Un passaggio per molti versi
analogo a quello dalla giudeofobia religiosa, bilanciata dalla scambio
politico e dalla conversione, al «moderno» antisemitismo
laico. Ternon rileva come i massacri in Cilicia del 1909 (40.000
morti) segnino lo spartiacque fra il vecchio e il nuovo metodo,
in coincidenza con la deposizione del sultano ad opera dei «Giovani
Turchi», temporaneamente alleati con i socialdemocratici armeni
del Dashnak, ma gli sfugge l'applicazione più generale dei
due stadi della strategia alle minoranze, se non per la deliberata
esclusione dei Greci dalle persecuzioni, al fine di dividere il
fronte cristiano.
Il
caso più tipico è quello dei Curdi, oggetto di persecuzioni
ancor prima degli Armeni e poi utilizzati da Abd-ül-Hamid come
esecutori del genocidio del 1895-1896 (i famosi reggimenti a cavallo,
che da lui prendono nome, gli hamidyie), al fine di creare un equilibrio
che paralizzi entrambi i gruppi e li sottometta al potere centrale
nei ruoli di vittima e boia autorizzato. Il partito «Unione
e Progresso» (Ittihad) riprende tale politica, ma con l'obbiettivo
della liquidazione integrale degli Armeni, senza un chiaro progetto
di cosa fare di Greci e Curdi. L'ingresso nella I guerra mondiale
favorisce la soluzione del problema, dal momento che le popolazioni
armene dell'Anatolia orientale si trovano in mezzo fra turchi e
russi ed è agevole invocare la necessità militare
di deportare un potenziale alleato dei russi (nelle cui file militavano
gli Armeni del Caucaso) lontano dal fronte. Eccellente occasione
per sradicarle dai loro villaggi e dalle grandi città, separare
gli uomini validi (subito uccisi) dalle donne e adolescenti, avviati
in lunghe carovane verso il deserto mesopotamico, preda delle bande
irregolari durante tutto il percorso e infine destinati alla morte
per fame e per sete nei luoghi di arrivo.
In
tale modo circa 1.200.00 sventurati (i 2/3 della popolazione) furono
sterminati. Chi può fugge nelle zone occupate dai Russi,
molte donne e bambini vengono rapiti o salvati dai Turchi e forzosamente
convertiti. I superstiti pervenuti in Siria e Mesopotamia furono
generalmente ben accolti dalle popolazioni arabe, anch'esse ostili
al dominio turco; nel 1919 ne restavano non più di 150.000,
destinati peraltro a un futuro migliore, come può constatare
chiunque oggi visiti il fiorente quartiere armeno di Aleppo. Malgrado
gli impegni del Trattato di Sèvres gli alleati dell'Intesa
non insistettero troppo per reinsediare o proteggere i perseguitati
nei territori nativi, anche perché la rivoluzione d'Ottobre
aveva creato un focolare nel Caucaso (l'attuale Repubblica di Armenia)
che costituiva per i franco-inglesi un problema geopolitico analogo
a quello del 1914 per l'impero ottomano.
La
nuova Turchia di Kemal Atatürk, erede in parte dell'ideologia
e dell'apparato dell'Ittihad, completò discretamente l'espulsione
dei superstiti armeni negli anni '20, cacciò completamente,
al termine della guerra del 1921-1922, due milioni di Greci con
la formula dello scambio di popolazioni e poté finalmente
iniziare a regolare i conti con i Curdi, troppo numerosi per essere
sterminati o deportati e quindi destinati a un'assimilazione forzata.
Un problema ben attuale. Ricordiamo che già negli anni `30
i movimenti rivoluzionari curdi e oggi il Pkk hanno autocriticato
il loro passato ruolo al servizio di Abd-ül-Hamid e dell'Ittihad
proponendo agli Armeni un'alleanza nell'ambito di un'autonomia amministrativa
e culturale dell'Anatolia sud-orientale. I problemi delle due diaspore
hanno finito per incrociarsi, in un contesto peraltro assai più
complesso (vedi la guerra in Iraq) e in cui gli Armeni svolgono
una parte ormai residuale.
Augusto
Illuminati
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