Dario il Grande, una lezione storica
Persecuzioni, emigrazione e accoglienza

Pubblicato su "Vita e Pensiero. Bimestrale dell'Università Cattolica di Milano"
E idem sul quotidiano Europa, Roma, 17/5/2008

"Non bisogna mai mettere un uomo nella condizione di non aver niente da perdere"
Aforisma zingaro, secolo XIX

La dea Anahid e l’inizio della storia

È una dea che possiede mille laghi e mille fiumi. Sulle rive di questi laghi sono state costruite magnifiche case, ognuna delle quali ha cento finestre luccicanti e mille colonne magnifiche e ogni casa posa su una piattaforma di mille pilastri (dall’Avesta, libro sacro dello zoroastrismo, Yasht, 6).

La dea Anahita (in lingua pahlavide, l’antica lingua persiana), Nahid (in persiano moderno e contemporaneo) e Anahid (in armeno) era adorata particolarmente dalle giovani donne e dalle ragazze di religione zoroastriana (persiane, armene, assire, caldee, azere ecc.), in quanto custode delle acque, della fertilità e della vita. Era la dea della verità e giustizia, talvolta anche della castità, e il suo culto si diffuse quasi come una religione su tutto il territorio caucasico, iraniano e dell’Asia Minore, ovvero Anatolia (in greco Anatolì, Oriente), dove disponeva di numerosi santuari. Santuari ricchissimi – visto che erano venerati non soltanto dai re e dalla classe dirigente iraniana e/o armena, ma anche dai popoli limitrofi, fino al lontano Rajastan, in India.
La pianura di Teheran era dedicata alla dea e comprendeva anche l’antica città di Rey (Raga o Rages in latino, Rhagae in greco), fondata nel X secolo a.C. e posta sulla Via della Seta. Di questi santuari oggi rimangono scarse tracce. In Iran, a Kangavar, villaggio situato nel lontano Kermanscià, nel profondo sud del paese, sopravvive un solo tempio che come struttura architettonica somiglia in modo straordinario ai grandi templi greco-romani conosciuti. In Iran questi templi, assieme a quelli zoroastriani, sono stati rasi al suolo – dapprima, e con grande accanimento, da Alessandro Magno e successivamente dagli arabi islamici sunniti (nell’VIII secolo) e poi dal mongolo Tamerlano, detto Timur lo Zoppo, nel 1220.
L’Islam sciita, che perseguiterà gli zoroastriani lungo tutta la storia iraniana, ha comunque dimostrato un certo rispetto per i templi della dea Anahita. A Yazd – città situata nel centro dell’Iran, che fu un importante centro zoroastriano e oggi è abitata da qualche “sopravvissuto” – ci sono i ruderi di piccoli templi quadrati dedicati a Bi-bì Sciahr-banù o Shahr-zad, la “Signora della città”, ovvero la Regina Anahita, e accanto a vari altri ruderi anche un tempio dedicato a Vahram (il Vittorioso, l’indistruttibile). Sul modello della dea Anahita, l’Islam sciita a sua volta dedicò varie città alle figure femminili sante o santificate: la città santa di Ghom (nell’Iran centrale) alla sciita Santa Masumè; Damasco alla Santa musulmana sunnita Zeynab; persino la Medina, che si trova in Arabia, nel cuore dell’Islam sunnita, a Donna Fatemè, figlia del profeta Mohammad. Anche gli armeni, dopo averla intitolata in un primo tempo ad Aramazd (ossia lo zoroastriano Ahura-Mazda), consacrarono alla dea la città di Anì (“Città di una e mille chiese”, oggi in Turchia).

La città di Rey: una città sfortunata

La sfortuna si accanì contro la città di Rey, sacra a Malek (“Regina del Paese Anahita”), posta 50 chilometri a est dell’attuale Teheran e fondata nel IX secolo a.C.: Alessandro Magno la diede alle fiamme con tutti i codici che vi si trovavano; assassinò tutti i Mogh (“Mago”, Magos in greco, ovverosia componente del clero zoroastriano), distrusse i templi e l’intera città. Secondo lo storico greco Strabone un pesante terremoto completò l’opera. Più tardi, nel 312-280 a.C., il greco Seleucus Nikater ricostruì la città e la ribattezzò con il nome di Europos (Europa), erigendo nelle vicinanze altri tre centri. Uno lo chiamò Apamea in ricordo di sua madre. Gli altri due furono distrutti dagli arabi nell’VIII secolo e successivamente dai mongoli (XIII secolo), e oggi di essi non rimane memoria.
Al pari delle sue “sorelle”, la città di Rey cadrà dapprima sotto giogo arabo e poi sotto quello del mongolo Tamerlano, che invase l’Iran nel Trecento (1219-1223). I sopravvissuti alla distruzione della multietnica Rey – c’erano gli sciiti con le loro filiazioni, quasi una ventina, i musulmani sunniti con due derivazioni, gli ebrei, gli armeni con due diramazioni (chiesa armena e chiesa armena cattolica), i georgiani (idem come gli armeni); c’erano i Lori, gli zoroastriani di varie risme, i bakhtiyari, ecc. – si riversarono in due villaggi: Teheran (oggi capitale dell’Iran, conta all’incirca 12 milioni di abitanti) e Mehran (“Città amorosa”, oggi cancellata dalle mappe). La città di Rey aveva quasi 450mila abitanti (un’enormità per quei tempi). Gli ebrei, i persiani-zingari e gli armeni presero la via verso nord – dapprima verso il Caucaso, l’Asia Minore e i dintorni del Mar Nero e poi verso i Balcani e l’Europa, portando con sé una quantità di mestieri “universalmente validi”, mestieri cioè che nel caso di emigrazione e cambio del paese non sono soggetti a perdere la loro validità. Ad esempio se un avvocato cambiasse proprio paese, dovrebbe iniziare tutto daccapo e per prima cosa apprendere una nuova lingua; non così un dentista. I persiani transumanti, che comunque erano sedentari, divennero zingari, ovvero “girovaghi” e diffusero in tutto il mondo la musica; gli ebrei fecero lo stesso con la finanza – crearono due nuovi stati ebraici nel Nord: Khazero sulla litorale del Mar Caspio ed Eshkenazita (da non confondere con gli Eskenaziti europei) sulle rive del Mar Nero e del Mar d’Azov. Gli armeni si concentrarono sulla medicina e sull’architettura, e così via. Nei secoli successivi e nel XIX-XX secolo tutte e tre queste etnie, com’è noto, vennero pesantemente perseguitate.

Gli zingari e la musica, mestiere per emigranti

Fin dai tempi più remoti gli zingari, di razza indo-europea, si occupavano della musica e del ballo. Secondo una mitologia diffusa fra tutti i popoli mediorientali e particolarmente nell’ambito dello zoroastrismo, il mondo iniziò per volontà divina con un big-bang musicale. E la Terra, a sua volta, ha bisogno di ricordare costantemente l’attimo della propria creazione. Ogni giorno occorre battere coi tacchi per terra e suonare e cantare qualcosa. Così nacquero il canto e la danza e la musica, sia in ambito religioso che in ambito popolare. Lo zoroastrismo glorificava il creatore facendo ballare in tondo attorno al fuoco sacro i mogh (“maghi”, preti zoroastriani), che procedevano lungo la figura di una swastica (segno di croce ruotante). Un simbolo che si diffuse sia tra i cristiani d’Oriente che tra i monaci bizantini, fino ai sufi dell’Islam sciita e sunnita. Oggi come oggi, ma ormai in modo del tutto alienato – spesso per mero diletto dei turisti – i sufi musulmani sunniti di Turchia ballano e danzano ancora in identico modo.
La swastica con le braccia uncinate verso sinistra, in senso antiorario, è simbolo del sole e della vita; se invece le braccia sono orientate in senso orario di rotazione (su-wastika) è simbolo della morte e della distruzione.

La formazione di un popolo: una storia di cavalli e di musica

Gli zingari persiani-zoroastriani aderirono alla figura della dea Anahita, che si presentava, sempre nell’ambito dello zoroastrismo, sintetizzandosi a mo’ di nuova religione. Portarono in giro come Parola di Dio i canti e la musica in tutto il Medio Oriente – sempre ballando su un tracciato a forma di svastica, cioè di croce ruotante –, giungendo fino in Spagna e anche oltre. Si spostarono senza fatica poiché, pur essendo in origine sedentari, seppero tramutarsi in transumanti, occupandosi prevalentemente dell’allevamento di mandrie di cavalli per l’esercito persiano e altri eserciti dell’area.
I cavalli a cui si dedicavano erano in maggior parte cavalli armeni, originari del Gharabagh (ghara, in turco, “nero”; bagh, in persiano, “giardino”, oggi in russo Nagorno-Karabak), dal mantello giallo oro, nero, fulvo o bianco, provvisti della particolarità che l’altitudine di quelle montagne non procurava loro nessuna vertigine, evitando così cadute rovinose per il cavallo e il cavaliere. In effetti lo zoroastrismo curò in modo spasmodico l’allevamento e l’addestramento dei cavalli, vietando tassativamente qualunque utilizzo a scopo alimentare degli animali da soma (asini, cammelli, muli, cavalli e addirittura vacche e buoi) e promuovendone altresì la tradizione – che resiste ancor oggi in molti Paesi mediorientali, persino nel seno di altre religioni come il cristianesimo orientale, l’induismo, l’Islam ecc. Gli Sciti (popolazioni storiche della Siberia del sud e del Caspio settentrionale) per le loro scorribande nelle steppe poterono disporre di cavalli persiani specializzati nel fiutare la neve scovando l’erba fresca nascosta sotto la crosta di ghiaccio.

Storia di una persecuzione millenaria

Nel XIII secolo gli zingari persiani rifiutarono di vendere i propri cavalli a Tamerlano e ad altri Khan mongoli, rimanendo fedeli all’impero persiano e ai popoli dell’area. I cavalli mongoli si rivelarono del tutto inadatti ad attraversare il Caucaso, che costituisce un muro fortificato naturale di difesa, com’era già successo con gli arabi, che si erano vendicati radendo al suolo tutta la piana armena. In tal modo fu impedita loro la penetrazione verso i Balcani e l’Europa. Lo stesso vollero fare i Mongoli, ma i monti caucasici per i loro cavalli erano insuperabili e per penetrare in Russia e in Europa furono costretti a trovare una via settentrionale costeggiando il Mar Caspio, perseguitando gli zingari ogni volta che se ne presentò l’occasione in quanto distruttori del progetto – nato sulle orme di Alessandro Magno – di creare un impero mongolo d’Oriente e Occidente (ovvero Eurasia: un impero che si sviluppava tra due oceani – dall’Atlantico al Pacifico – e che avrebbe dovuto comprendere tre continenti, l’Europa, l’Asia centrale e periferica e la Cina). Più avanti gli zingari transumanti della città di Rey e dintorni si convertirono quasi tutti al cristianesimo e si fecero ribattezzare rom: termine arabo che significa “greci e/o romani”, ovvero “gente d’Occidente”.
Le fila di costoro vennero irrobustite con l’aggiunta dei koulì persiani – cioè “gente con averi sulle spalle”, che storicamente erano dei vagabondi che rigettavano la proprietà privata e vivevano in tende allestite fuori delle mura delle città. I koulì giravano per il paese e diffondevano la danza, esordendo con le braccia alzate, in segno di glorificazione di Ahura-Mazda; rigettavano le altre religioni rivelate, poiché contrarie alla danza e alla musica, come l’ebraismo e il cristianesimo orientale e l’Islam sciita. Provvedevano ad accompagnare con canti e musiche le feste e i matrimoni, portandosi dietro i loro strumenti musicali un po’ dovunque, organizzando spettacoli teatrali – per certi versi paragonabili a quelli circensi –, allettando gli spettatori con la lettura della mano e del futuro. Erano specializzati nella fabbricazione di strumenti musicali a fiato e nella lavorazione del rame per usi domestici, per confezionare talismani di buon augurio matrimoniale, salute o lunga vita. Si spinsero verso il Mar Caspio e il Mar Nero. A costoro si unirono i cantautori del Caucaso coi loro tar (strumento simile alla chitarra), i cantautori-poeti detti Asciugh (“innamorati” o “pazzi di Dio” in arabo, ashik in turco, asciugh in armeno), poliglotti, colti e provenienti da tre villaggi situati nel cuore dell’Armenia orientale. Vagabondi – simili ai dervisci ma esclusivamente laici – diffondevano in ogni dove, insieme agli zingari e ai koulì, la filosofia, la storia, la poesia e l’amore, dapprima verso il Caucaso, poi verso l’Asia Minore, seguendo le rotte balcaniche fino all’Europa settentrionale, percorrendo anche la rotta verso ovest, in direzione della Francia del Sud fino alla Spagna e al Portogallo, contribuendo alla formazione di vari flamenchi, sempre portando con sé le strutture occorrenti per i loro spettacoli e ogni tipo di strumento musicale. A partire dal 1880 arrivarono addirittura negli Stati Uniti.
Gli europei a loro volta perfezionarono tutta questa eredità ricevuta dall’Oriente, e dal Rinascimento svilupparono ed elaborarono proprie musiche, canti e balli attraverso la diffusione seguita a quella lontana emigrazione dalla città di Rey e dintorni. Se non ci fossero stati questi zingari indo-europei, oggi ad esempio forse non ci sarebbe stato un Bach, un Liszt, uno Hummel, un Brahms, un Ciajkowskij, un Rakhmaninov, un Bela Bartok, un Frédéric Chopin, un Wagner. E per quanto riguarda i secoli successivi Adolf Hitler – per non essersi trovato i Mongoli come vicini di casa e come compenso per ringraziarli – nel 1944 organizzò una “Notte Tzigana”, massacrandoli a più non posso e bruciandoli nei forni crematori di Dachau, Mauthausen, Auschwitz, Birkenau (quest’ultimo era un campo speciale riservato agli zingari). Il numero esatto non si sa, ma qualcuno mormora: da due a quattro milioni. Lenin e Stalin da parte loro ne mandarono parecchi a spaccare le pietre nei gulag sovietici (il numero preciso non si conosce, qualcuno parla di circa di un milione e mezzo di persone). Ugualmente si ignora a tutt’oggi il numero esatto dei giovani e dei pupi che finirono nelle mani del Dr Joseph Mengele come materia prima per i suoi “esperimenti”.

"Quando il bastone divino colpisce, generalmente non fa rumore"
Aforisma armeno, XIX secolo

Anche la “civilissima Svizzera” cercò di sedentarizzare gli zingari, togliendo loro i figli per annientare in modo soft la discendenza e la prosecuzione della razza e sterilizzando anche le donne. Ma il buon Dio – ovvero Ahura-Mazda – non donò agli svizzeri né un compositore, né una poesia, né una musica, né un canto o una danza degni di nota.

Il modello svizzero ebbe un certo successo: le sterilizzazioni di massa degli zingari Rom, Sinti e Kali ebbero luogo anche in Ungheria, in Cecoslovacchia, in Bulgaria e in Spagna.
Un altro colpo di grazia fu predisposto dalla Nato e dai suoi comprimari europei nella ex Yugoslavia e nei Balcani. Oggi i discendenti di questo popolo sono ridotti alla miseria e si trovano sparsi in vari paesi europei: suonano nei metrò, praticano l’accattonaggio e talvolta rubacchiano a destra e a sinistra per racimolare qualche soldo (a parte qualcuno, come Goran Bregovic, che può dire di avercela fatta). Nel 1970 avevo preso parte a un matrimonio zingaro in Romania, e volevamo, con l’amico musicista Ludwig Bazil , organizzare un concerto a Milano per mettere l’accento sulle origini della musica occidentale. Alla fine non ci riuscimmo perché a Milano vi fu un “grande rogo”, battezzato in seguito “Mani pulite”, e l’assessore comunale alla cultura Guido Aghina, che avrebbe potuto aiutarci a realizzare il nostro bel progetto, dovette abbandonare il suo posto.

"Quando una foresta brucia, cespugli maleodoranti e innocenti grandi alberi di noce bruciano insieme"
Aforisma degli zingari armeni, XIX secolo

D’altronde questa eredità musicale è così immensa che il governo islamico dell’Iran ha creato un istituto di ricerca che già ha pubblicato i primi tre volumi di una Encyclopaedia of the Musical Instruments of Iran a cura di Mohammad-Reza Darvishi, prevista in dieci volumi; ogni volume è di grande formato e di quasi 600 pagine.

Persecuzioni, emigrazione e accoglienza
L’imperatore persiano Dario il Grande: una lezione storica

Nell’autunno del 2003 Bahram Ghassemi, ex ambasciatore persiano a Roma, organizzò una cerimonia in occasione del conferimento di un’onorificenza per meriti culturali al sottoscritto. Nel salone di ricevimento delle autorità dell’ambasciata trionfava appeso al muro, per onorare un concittadino cristiano, un grande tappeto persiano antico, pulito e restaurato per l’occasione, che raffigurava L’Ultima Cena. E mi disse: «Proprio non capisco il perché del mugugno italiano circa le problematiche dell’emigrazione straniera in Italia, che è di consistenza tanto scarsa. Dall’Afghanistan, nel corso della guerra con l’Unione sovietica, a noi arrivarono in un colpo solo circa due-tre milioni di persone. Non sappiamo e non sapremo mai il numero esatto. Comunque era gente che aveva fatto la guerra per lunghissimi anni, gente affamata, gente piena di rabbia, che ci ha fatto vedere i sorci neri. Eppure in qualche modo siamo riusciti a dare a tutti un tetto, o almeno un bugigattolo, e a organizzare scuole per i pupi e per la gioventù sotto le tende, perché non disponevamo di un numero sufficiente di edifici vuoti. È noto quanto siano fondamentali asili e scuole per “contenere” un’immigrazione selvaggia, partendo da pupi e dai giovanissimi. Comunque i soldi spesi per l’accoglienza sono sempre un terzo di quelli spesi per la sicurezza e da sempre hanno dato risultati migliori. Quello che a noi dispiace, è che non abbiamo potuto mettere le mani sulla “crema afghana”, cioè sull’aristocrazia, sull’intellighentsja, sui laureati in genere, sui medici ecc. In compenso, qualche tempo dopo ci sono riusciti gli americani».

L’imperativo dell’accoglienza fu la grande lezione politica dello zoroastriano achemenide Dario il Grande, E successivamente divenne un imperativo politico in tutte le aree del Medio Oriente e fu seguito da quasi tutti i sovrani persiani – così come da quelli degli altri paesi limitrofi mediorientali – nell’arco della loro lunga storia. Dario stesso fece emigrare dalla Palestina quasi cinquantamila ebrei per impostare l’amministrazione dell’Impero persiano. E una volta terminato il lavoro, il suo successore Ciro il Grande ricostruì anche il tempio ebraico di Gerusalemme e lasciò che gli ebrei tornassero a casa, donando a ciascuno un sacchetto d’oro. Ciro dagli ebrei ottenne il titolo divino di “Unto del Signore”

Qualche milione di armeni sopravvissuti al genocidio del 1914-18 giunse in Iran, Iraq, Siria, Libano, Cipro, e perfino in Etiopia, Egitto e Libia. In questi paesi trovò sempre porte aperte all’accoglienza, insieme a documenti personali, orfanotrofi, “case per donne sole con bambini sopravissuti”, lavoro e il permesso di costruire proprie scuole e chiese.

Su questo modello si muoverà anche l’Algeria dopo l’indipendenza, visto che c’era tanta gente d’origine medio-orientale, laureata e disponibile, sparsa a macchia di leopardo in tutti i paesi europei, arrivata per completare gli studi superiori e poi impossibilitata a tornare a casa. Costoro avevano problemi con i propri sistemi governativi (ovvero con le dittature mediorientali). Generalmente la loro colpa fu che erano portatori di pezzettini di democrazia di tutte le risme possibili e immaginabili: laici o religiosi che fossero.
L’Algeria indipendente trovò per loro un lavoro (spesso e volentieri nel campo dell’edilizia e dell’architettura) e una casa; in particolare seppe garantire la sicurezza fisica a tutti costoro e alle loro famiglie. Ma il “foraggiamento” dei “Fratelli musulmani” da parte della Francia portò infine a una guerra civile (circa 220mila morti – il numero esatto, ancora una volta, non lo sapremo mai) e sprofondò di nuovo il paese nel Medioevo. Il quale paese iniziò comunque a “sputare” petrolio e gas a favore dell’Occidente in generale e della Francia in particolare. Questi emigrati – spesso e volentieri anche persiani – finirono col ri-emigrare e vennero “risucchiati” dall’Europa e dagli USA.

Nel 2006, su una banchina del metrò 3 di Milano, incrociai un ragazzino Rom che suonava il violino come un mezzo genio, sotto lo sguardo di due “marcantoni” macedoni che intascavano i soldi, spesso e volentieri banconote, che i milanesi di passaggio estasiati da tanta maestria elargivano al ragazzino. Pensai che il ragazzino era destinato a un futuro infausto. Nessuno sarebbe occupato di lui se non per usarlo come un mezzo per estorcere denaro. Mi nacque allora una domanda. Qualcuno avrebbe mai sentito il nome di Giuseppe Verdi, se non ci fosse stato Antonio Barezzi di Busseto, che appoggiò e protesse il musicista, e più avanti addirittura lo fece sposare con la propria figlia? E Verdi, quanto lavoro e “fatturato” ha prodotto per l’Italia? Qualcuno dovrebbe prendere carta e matita e fare il calcolo. E Uto Ughi? Non accogliendo quel ragazzino l’Italia ha forse rinunciato a un fatturato futuribile, a un Uto Ughi II (lavoro, tasse e immagine). E oggi come oggi, escludendo il ragazzino anche dalla società e dalla scuola per avviarlo sulla strada, si è forse tentato di creare un futuro criminale e/o, nel caso peggiore, un terrorista?

San Pietroburgo, alias Petrograd, alias Leningrado, è stata costruita grazie al lavoro degli italiani ed è quasi una città italiana trapiantata in Russia. Se non ci fosse stata l’emigrazione italiana, i russi non avrebbero mai potuto disporre di tale meraviglia, e nello stesso tempo gli italiani sono rimasti privi di quella magnifica città. L’incoraggiamento nei confronti dell’emigrazione italiana, che fu messo in atto nel secolo scorso, specialmente da parte dei Savoia, i quali scacciarono quasi gli italiani “poveri in canna e turbolenti” fu un grande tradimento verso l’Italia. Oggi come oggi, una massa di 55 milioni circa di italiani si trova all’estero. Se fossero ancora in Italia, sommandoli alla popolazione già residente nel paese, avrebbero reso l’Italia il paese numero uno in Europa, escludendo qualsiasi crisi economica. Tutte le mattine – si fa per dire – sarebbe stato necessario preparare circa 55 milioni di caffè in più e incassare il relativo fatturato, IVA e tasse. Tant’è vero che, passata la “bufera”, il governo romeno rivuole indietro i suoi 3-4 milioni di emigrati. E questo creerà svariati problemi anche in Italia, provocando una carenza di mano d’opera nei settori della bassa manovalanza, nella tecnologia e nei servizi.

«Gli zingari italiani?» «Nema problema»

Gli zingari di vario ceppo – Rom, Sinti, Kali – di nuova e vecchia emigrazione in Italia si calcola siano circa 150.000. È una minoranza diffusa a macchia di pelle di leopardo sul territorio. Ma allora rappresenta un problema marginale. Si è voluto che ci fosse il problema, da gestire in modo opportuno e forse funzionale a certa politica di bassa lega, ammassando e facendo vivere questa povera gente in campi che sono un’imitazione degli stalag di sinistra memoria, lasciando da parte l’esperienza eccelsa in questo campo accumulata ad esempio da Don Virginio Colmegna e dall’Opera Nomadi – a Milano la sede di questi ultimi fu oggetto di vandalismo nell’ormai lontano dicembre del 2003. Per sedentarizzarli basterebbe restituire loro le case, i terreni e i permessi di accampamento, che ammontano alla cifra quasi incredibile di 10.000 unità, insieme con il tesoro degli zingari italiani, estorti e confiscati nel periodo fascista e avvolti nel più completo silenzio dopo la Seconda guerra mondiale.
Per tornare all’Iran – a causa delle persecuzioni bolsceviche e staliniane, dalla Russia prima e dall’URSS poi – a un certo punto laggiù sono arrivati migliaia e migliaia di europei e asiatici d’ogni etnia, che nella quasi totalità erano privi di documenti, perché sequestrati a suo tempo dalla GPU prima e dalla CEKA poi (quello che più avanti nella storia sarà il KGB). Fu un esodo di massa, una massa candidata ad essere annientata definitivamente. Ma il governo persiano rilasciò immediatamente permessi di soggiorno e carte d’identità sulla sola parola dell’emigrante. Fu il primo atto d’accoglienza, funzionale all’inserimento di quel “soggetto estraneo” nel seno della società. E più avanti vennero messi in piedi asili nido e scuole elementari e medie per ciascuna etnia: russa, ucraina, bielorussa, georgiana, armena, ebraica orientale e tatara (turchi dell’Azerbaigian).

HERMAN VAHRAMIAN

"Uno zingaro rubò due chiodi dalle mani insanguinate di Gesù. Gli uomini lo condannarono a un eterno vagabondaggio. Gesù sospirò di sollievo: aveva due chiodi in meno a tormentarlo"
Aforisma risalente al 18 gennaio 1996, dopo che fui insolentito da un milanese poiché avevo donato qualche soldo a una zingara con in braccio un figlio piccolo.

Il significato di Daryush (Dario) e il senso della sua grandezza

Derviscio = Daryush = Dario = Povero

È Darviscio (Darvish): Il termine dell’Avesta darigù, diventato in pahlavi dariush, e in persiano antico derviscio, o anche il nome proprio Dariush, Dario, significa, letteralmente, “poverello”, ma con valore filosofico, o mistico, o sociale. E’ il povero contrapposto al ricco, che il poeta Saadi (1184-1291) definisce addirittura con la parola “capitalista”. Il derviscio ha scelto la povertà per volontà personale, per poter seguire una ricerca spirituale sulla via del sufismo. In epoca antica in Iran, in Afghanistan, in Caucaso, esisteva un gran numero di monaci poveri: monaci cristiani girovaghi, stiliti, o altro, appartenenti a gruppi di ambito georgiano, armeno, nestoriano, o di altre chiese monofisite pre-islamiche; monaci buddhisti, monaci induisti, ecc., che avevano un denominatore comune, tutti erano accomunati dalla “passività ideologica”, esprimendo la loro opposizione di vario genere solo a parole.

A partire dal XII sec., invece, il movimento dei dervisci in Iran assume connotati attivi e gradualmente trova maggiore aggregazione. Nel XIII secolo nascono movimenti di opposizione sociale vera e propria, come Sar-be-Duri-yè, in Khorasan e Kerman, Marashi-yè, in Ghilan e Mazandaran, Horufi-yè in Azerbaigian. Questi movimenti tendevano verso lo gnosticismo, oppure assumevano caratteri politici promuovendo rivolte armate in un primo tempo contro gli stranierei: mongoli, tartari, ecc., successivamente contro la classe aristocratica dominante e contro il clero sannita. Tra i movimenti dei dervisci-sufi che si diedero un organizzazione strutturata quello di Sheik Safi el- Din Ardabili contributi alla fondazione della dinastia safavide in Iran.

Durante il XIX secolo i dervisci vivono un periodo di grande declino culturale e artistico. Ormai fanno parte della classe dei poveri, vivono di accattonaggio e di espedienti. Della cultura classica rimangono solo delle ombre. Hanno ancora grande importanza e prestigio solo i dervisci provenienti dalla classe aristocratica colta, che di propria volontà si esiliano in un girovagare mistico. Dal movimento dei dervisci, nel cristianesimo orientale, prendono origine gli “innamorati” (asheg in persiano : ashik, in turco; ashugh in georgiano o armeno). Erano cantori girovaghi , molto colti , che suonavano nelle corti georgiane, turche, armene o altre. Il più famoso è l’armeno Sayat. Nova, che compose canti in armeno, georgiano e turco azero con mescolanze di altre lingue caucasiche e di persiano.

Herman Vahramian (dottore, architetto, giornalista)
Viale Umbria, 35
20135 Milano