Ricordiamo
che in Armenia e in tutta la diaspora Nwarth Zarian è considerata
la migliore scultrice contemporanea, ha eseguito il ritratto del
padre dello Scià di Persia, nientemeno, e numerose sue
sculture sono state acquistate dai musei di arte moderna di Erevan
e del Libano. Ha esposto alle Biennali di Venezia e alle Quadriennali
di Roma, ha avuto premi di ogni importanza tra cui nel 1970 quello
di Suzzare, del puledro, prima fra le donne ad ottenerlo, ha insegnato
anni ed anni trasmettendo carisma ed esperienza a centinaia di
allievi ed ha viaggiato in tante parti del mondo ritornando anche
in Armenia, dove ha riportata il clima perenne e antico di uno
spirito libero e pieno d’amore. È ritornata in Armenia
dopo che ha conquistato la sua fama e anche perché le hanno
commissionato dei monumenti; ma il monumento più grande
e imperituro che ha portato e che in definitiva costruisce in
ogni luogo restandone sotto ogni materia è dentro ogni
luce è quello alla donna, alla sua gloria di esistere,
di essere, comunque vinta, invincibile. Ci siamo rivisti poche
volte nei recenti anni romani ma ad ogni incontro con stupore
e tenerezza l’ho trovata sempre immersa nel suo lavoro a
tradurre dalle idee grafiche il suo plastico mondo e questo plastico
mondo nel cemento, nella pietra, nel marmo a vivere nella scultura
come una perenne innamorata.
Non è possibile confondere la fisionomia fisica di Nwarth
Zarian, come del resto confondere quella della sua arte: e tanto
l’una quanto l’altra, io che le conosco da mezzo secolo,
posso dire con certezza che non sono poi tanto cambiate, al comun
denominatore di una interiore giovinezza. Intrepida, con quella
frezza bianca perenne nei capelli, come un distintivo, un grado
di capitanessa in mezzo alle donne, gli occhi tagliati in su che
le donano una strana impronta di feline, la voce fonda eppure
soave e nella costante severità (dovuta all’emergenza
della vita) percepibile l’ironia, quando addirittura, come
un benevolo pugno che ricevi da un amico, non si muta in risata.
Figlia del grande scrittore Costant
Zarian,
ha sempre avuto questa caratteristica inconfondibile, di essere
una creatura che pensa e vive il mondo dell’altopiano armeno,
non come nostalgia ma come libertà: quanto più si
è discostata dalle scelte artistiche tradizionali della
patria di origine ed è stata per cultura e vita (moglie
del pittore Mario Cimara, figlio del popolare attore Luigi) tutta
italiana (unica donna partigiana armena in Italia) tanto più
è rimasta innamorata dell’umanità. E se è
vero che la sua scultura e, oserei dire, la sua famiglia potevano
nascere anche in USA, è anche vero che il suo mondo di
universale amore per il prossimo, armata di ogni coraggio e di
spirito di sopravvivenza, di inesauribili carica di ottimismo
sarebbe rimasto intatto – come è infatti anche adesso.
Ecco perché, fuori del frastuono della Capitale, nella
casa in collina di Santa Marinella (in paese la chiamano la signora
della Collina), dove vive sola dopo la scomparsa di Mario in mezzo
alle sue sculture e in piena cattività, guardata dai mille
preziosi ricordi della sua magnifica avventura, io l’ho
ritrovata e ammirata ancora più viva.
Marcello Venturosi

