C’era una volta
il “Farsi”.
Se in Europa tornasse il latino?
Herman
Vahramian è nato a Teheran nel 1940 da genitori armeni.
Dal 1960 vive in Italia. Si è laureato in architettura
al Politecnico di Milano. Artista, scrittore, studioso delle
culture mediorientali, ha pubblicato nel 1991 il volume Diaspora
della mente e nel 2002 Superpartes. Il pensiero nano al tempo
dello globalizzazione.
Ogni
Impero si è costituito intorno ad alcuni capisaldi, tra
cui la lingua. Oggi esiste il cosiddetto “inglese degli
aeroporti”, ma già sulla Via della seta si erano
inventati il “Farsi”. In teoria, per l’Europa
ci sarebbe il latino...
Le
entità politiche che nel corso della storia sono diventate
imperi non sono poche. Basti pensare, nell’antichità,
all’Impero di Alessandro Magno, a quello dei persiani
Achemenidi e Sassanidi, fino, ovviamente, all’impero romano.
Una versione attuale della forma impero è quella attribuibile
agli Stati Uniti e alla Cina: Stati che hanno mantenuto e mantengono
tuttora sia una loro coesione interna sia un peso sulla scena
internazionale. E ciò tramite una molteplicità
di mezzi: economici, politici, culturali e soprattutto militari.
Tutti gli imperi fin dall’antichità si sono formati
indipendentemente dal consenso interno (e tanto meno da quello
esterno).
Al
contrario, l’Europa unita è un’entità
geopolitica in via di formazione sulla base proprio di un consenso
interno, che risulta indispensabile per superare quei problemi
“comunitari”, oggetto di ricorrenti polemiche. Se
da un lato l’obbligatorietà dell’unanimità
nelle decisioni rallenta la formazione del potenziale “impero
europeo”, dall’altro concede un arco di tempo sufficientemente
esteso perché si possa compiere un “salto emozionale”,
cioè favorire la percezione del sistema imperiale da
parte dei cittadini: una consapevolezza alquanto differente
dal sistema Stato-nazione nel quale tutti i cittadini europei
per vari secoli sono stati immersi e al quale sono da sempre
abituati.
I
termini “impero”, “imperiale” e simili
suscitano troppi e talvolta spiacevoli fantasmi in terra europea.
Anche perché i tentativi compiuti in passato di costruire
imperi “interni” all’Europa hanno proceduto
di pari passo con la costituzione degli imperi d’oltremare
(per esempio, quelli dell’Inghilterra, della Francia,
della Spagna). Tuttavia, non si può negare che gli imperi
abbiano quasi sempre permesso di evitare le guerre interne tra
gli Stati che li componevano. Il sistema degli Stati-nazione,
come dimostrano le due guerre mondiali o il caso irlandese,
ha invece spesso e volentieri scatenato conflitti violenti e
sanguinari.
Rispetto
agli Stati-nazione, gli imperi dispongono di strutture sociali,
politiche, culturali ed economiche alquanto diverse. Per esempio,
la moneta unica non è solo un fatto economico, ma anche
un importante fattore emozionale, un passo quasi implicito nell’instaurarsi
stesso di un “sistema imperiale”: essa, infatti,
simboleggia e rappresenta l’impero (così come una
moneta nazionale simboleggia un sistema di Stato-nazione). E
soprattutto, la moneta unica equipara il “costo dei cittadini”
che compongono le varie nazionalità dell’impero.
Equipara, per esempio, il costo e il valore di un passaporto,
il costo e il valore della nascita, dell’educazione e
dell’assistenza di una persona.
Ogni
impero ha dei simboli per eccellenza: primo fra tutti le vie
di scorrimento veloci e auspicabilmente cruciali (per esempio,
il colonialismo inglese, con la rete di ferrovia forse più
estesa del mondo e prevalentemente costruita a uso e consumo
proprio della natura coloniale, ha contribuito sostanzialmente
alla formazione dell’India contemporanea). Le vie di comunicazione
possono tornare utili anche per depotenziare qualsiasi “isola”
etnica, amministrativa e politica, all’interno della struttura
imperiale. E ciò, in un certo senso, accade anche oggi
con le autostrade di percorrenza veloce, le grandi rotte marine,
i treni ad alta velocità e, soprattutto, con la diffusa
maglia aeroportuale: una rete unica e unificante di comunicazioni
territoriali di massa che, quasi naturalmente, è sospinta
a esprimersi con una lingua e una cultura sovranazionali.
La
lingua inglese-americana e la cultura anglosassone, per esempio,
sono egemoni negli Stati Uniti e quella russa lo è stata
- per certi versi lo è ancora - nei territori dell’ex
Unione Sovietica. Per inciso: entrambe sono le espressioni di
una nazione che con la forza delle armi ha potuto imporre la
costituzione dell’Impero. Nel caso dell’Europa,
invece, è piuttosto evidente la mancanza di una egemonia,
in primo luogo linguistica ma anche culturale. Non è
difficile, viceversa, constatare come la cultura statunitense
e anglosassone abbia avuto una capillare penetrazione planetaria,
anche in forza della straordinaria diffusione della lingua in
cui si esprime, ossia l’anglo-americano.
L’Europa,
sotto questa prospettiva, è piuttosto carente. Qual è
la lingua ufficiale e condivisa dell’”impero d’Europa”
in formazione? Le lingue “ufficiali” ammesse al
Parlamento europeo - ma è solo un esempio dei molti possibili
- sono più d’una e i tanti sforzi compiuti sia
dalla Germania sia dalla Francia per il rilancio della propria
cultura in termini egemonici attendono ancora un qualche risultato
apprezzabile.
In
effetti, il passaggio dal sistema degli Stati-nazione di tipo
europeo a quello di un possibile “impero europeo”
crea tali e tante problematiche, che solo il fatto di elencarle
nel breve spazio di un articolo risulta arduo. Il patchwork
di popoli, etnie, religioni e culture che copre il territorio
di un impero dovrebbe, in qualche modo, essere “legato
orizzontalmente”. E questo legame potrebbe essere innanzitutto
costituito da una lingua unificante (l’India, senza l’“anglo-indiano”
imposto dai britannici con le baionettate, sarebbe diventata
quella che è oggi?), e poi da un paradigma culturale
condiviso.
Nel
caso dell’impero europeo, su questi temi non si è
compiuto, almeno finora, nessun passo avanti significativo.
Tutte le iniziative per approntare una lingua diffusa ed egemone
sono state miserabilmente bocciate. E le proposte riguardanti
l’utilizzazione della lingua latina come veicolo di comunicazione
europea sono state caricate di così tante istanze non
proprie - si pensi alla connotazione religiosa in generale e
cattolica in particolare - che hanno finito per risultare sgradite
a parecchi laici e cristiani non cattolici, specialmente nordeuropei,
anche per la paradossale convergenza fra chi rifiutava la memoria
dell’imperialismo europeo dei secoli passati e chi accentuava
il carattere identitario e integralista delle culture locali.
Il risultato è stato che l’idea di una lingua comune
per gli europei è diventata come carta straccia nella
discarica della memoria storica.
Eppure,
nei secoli passati, ci sono stati vari “episodi”
che hanno dimostrato la possibilità di immaginare una
lingua egemone e diffusa per far parlare allo stesso modo popolazioni
diverse. Un esempio è il farsi (persiano), la lingua
che veniva usata sulla Via della seta. Una lingua voluta dai
commercianti armeni, con il consenso dell’imperatore bizantino,
ma anche dei vertici dell’impero mongolo. Il farsi era
un “persiano” molto particolare, un persiano semplificato
che inglobava termini provenienti da altre lingue, e proprio
per questo molto simile, come costruzione, uso e diffusione,
a quell’inglese contemporaneo conosciuto come “inglese
degli aeroporti”, una lingua non raffinata, che ha poco
a che vedere con Shakespeare, ma fa decollare e atterrare un
aereo senza incidenti, garantendo la comunicazione indispensabile
tra i piloti e le torri di controllo dove operano tecnici che
devono capire e trasmettere le comunicazioni in modo chiaro.
Per
promuovere una lingua egemone sulla Via della seta i commercianti
Armeni pretesero accordi precisi con Bisanzio, con l’impero
persiano e, successivamente, con i turchi selgiuchidi. I mercanti
mongoli furono, a loro volta, tra i più zelanti diffusori
della “lingua persiana dei porti e dei commerci”.
Gli armeni adottarono la scrittura persiana come lingua ufficiale
per la contabilità, la corrispondenza e quant’altro
fosse utile al commercio. Fino ai genocidi degli armeni dall’inizio
del XX secolo, per esempio, tutti i tappeti armeni di provenienza
cristiana, ma anche ebraica o di altre religioni, riportavano
la data di fabbricazione in numeri persiani. Un artigiano che
realizzava un tappeto a Isfahan (già capitale dell’Iran),
doveva farne conoscere le caratteristiche al suo cliente “bottegaio-commerciante”
cristiano in Europa, così come a tutti gli altri popoli
interessati al commercio internazionale. Il tappeto - così
come altre merci - doveva poi “parlare” anche ai
marinai del trasporto navale di una compagnia di navigazione
ottomana, araba, genovese e/o greca.
Nella biblioteca del monastero armeno Giulfa di Isfahan esistono
decine e decine di codici ancora non decifrati: sono i libri
contabili, le raccolte dei contratti e quant’altro serviva
al commercio internazionale, spesso e volentieri in lingua armena,
ma scritti con caratteri persiani.
Il
Farsi, oltretutto, si diffuse sulla via dei pellegrinaggi verso
Gerusalemme e la Mecca; gli arabi ne ricavarono i numeri odierni,
detti “arabi”: in realtà sono un’elaborazione
di matematici indiani di Radjastan, la patria dell’astronomia
e della matematica asiatiche. I commercianti armeni, dunque,
diffusero il farsi in tutto il mondo occidentale. Più
avanti, esso divenne una delle due lingue ufficiali dell’Afghanistan.
I turchi ottomani, a loro volta, con mille parole turche crearono
una lingua finissima prendendo vari “prestiti” da
questo “persiano di porti, di cammelli e di bestie da
soma” e diffondendolo dai Balcani fino alle steppe dell’Asia
centrale. Un’esigenza molto pragmatica, come quella degli
scambi e degli affari, divenne così un fattore di cultura,
identità e religione.
Invece
in Europa con il latino è stato commesso un errore gigantesco.
A nessuno è venuto in mente che potesse nascere anche
un latino contemporaneo “aeroportuale”, perché
storicamente in Europa esiste solo la versione dotta della lingua
latina, inservibile e fuori della storia contemporanea. E nessuno
ha osato elaborare il latino al servizio di un obiettivo, come
avvenne con il farsi sulla Via della seta.
Il
latino - alla stregua del farsi - potrebbe semplificare la vita
dei popoli europei, diventando un “esperanto” estremamente
duttile e di facile apprendimento (bastano 1500 parole), con
cui tutti gli europei hanno familiarità già da
giovanissimi, perché questa lingua fa parte delle radici
della multiforme cultura europea. Dal Portogallo fino all’Ucraina
- compresa la Russia, ma pure la Grecia e Malta - la parola
“motore”, per esempio, ha la stessa origine latina.
Inoltre, tutte le parole che hanno a che vedere con la civiltà
industriale europea, con la sua cultura e la sua tradizione
politica, sono state “traslate” nei Paesi del Terzo
Mondo: per rimanere alla parola “motore”, essa risulta
uguale in georgiano, in armeno, in azero, in turco, in persiano,
in afgano, in indiano, ed esiste anche nel vocabolario iracheno.
In teoria, dunque, il latino in versione “aeroportuale”
potrebbe diffondersi un po’ dovunque. Persino nell’isola
di Sakhalin? Perché no? Anche lassù si parla il
russo, che affonda le sue radici linguistiche nella lingua latina.
Herman
Vahramian, da un articolo per "L'Avvenire" del 2004